Sei scampato al rogo? Espulso!

“L’accoglienza ai Romeni? Come no? Possiamo sempre riaprire il campo di concentramento Ferramonti di Tarsia”. La battuta è una di quelle che ti lasciano stordito. Se a pronunciarla è un vecchietto in attesa di farsi tagliare barba e capelli, nel cuore di Cosenza, affiora pure un senso di straniamento. Non sono rimasti tanti i luoghi in cui si parla faccia a faccia di politica e attualità. Dopo la crisi dei negozi al dettaglio, affondati dai centri commerciali, con l’eclissi delle piazze reali sostituite da quelle virtuali, i saloni dei barbieri rappresentano l’unico termometro efficace per misurare la temperatura dell’odio sociale. La gente che vi entra, si rilassa. E, incredibile ma vero, addirittura discute, spesso lasciandosi andare a boiate da ictus. Con un tempismo straordinario, l’anziano signore nostalgico delle “soluzioni finali” proponeva la sua ricetta a poche ore dal verificarsi della tragedia che adesso divide Cosenza e i Cosentini.
Nella notte tra venerdì 1 e sabato 2 marzo, tre persone hanno perso la vita, a causa di un incendio avvenuto nella casa abbandonata in cui avevano trovato riparo dal freddo. A scatenare il rogo, un corto circuito provocato dall’allaccio abusivo di una stufa e un fornellino alla rete elettrica pubblica. È successo a venti metri dalla locale sede di Equitalia, in via XXIV maggio che un tempo si chiamava via delle Forche Vecchie. Per due giorni i resti dei tre sventurati, resi irriconoscibili dalle fiamme, non hanno avuto nome. Forse per questo motivo, in città s’è sparsa la voce che fossero Romeni. Pochi sanno che tra gli abitanti della Romania e i rom esistono differenze etniche, storiche, culturali. Quindi li identificano. E siccome i rom provenienti dalla Romania sono quelli che abitano nelle baracche in riva al fiume, già andate a fuoco tre volte in due anni, il collegamento concettuale sarà stato spontaneo: vivono in mezzo ai topi, quindi muoiono come i topi. Intrappolati!
Invece poi sono arrivati i risultati della Scientifica. Un nome ce l’hanno, quei tre disgraziati. E avevano pure dei familiari che adesso ne reclamano le ceneri. Mourad Gam Gam e Abdelkadir Melouk, poco più che quarantenni, erano cittadini marocchini. Mazni Massaouda, tunisina, aveva 58 anni. Era da poco rientrata in Italia per seguire la causa contro l’ingiusta detenzione del figlio Alì, arrestato, liberato e assolto per una delle tante rivolte di migranti, avvenute nel Centro di identificazione di Crotone.
Un quarto Maghrebino, Adil, è sopravvissuto al rogo. Gli uomini dello Stato lo hanno subito acciuffato e, in applicazione della stupefacente normativa italiana sull’immigrazione cosiddetta “clandestina”, stava per essere democraticamente buttato fuori dal territorio nazionale. Soltanto l’intervento dell’avvocato Adriano D’Amico, difensore attivista per i diritti dei migranti, è valso a garantirgli un soggiorno temporaneo per motivi di giustizia.
Sabato scorso, davanti all’edificio annerito dalle fiamme, si sono radunati centri sociali, associazioni per i diritti umani, semplici cittadini. Intenso lo scambio di accuse tra istituzioni e operatori dell’accoglienza. Frenetica è l’attività degli uomini di Chiesa e di spettacolo, che si prodigano nel promuovere meeting, intitolazioni e minuti di silenzio. Fatti concreti? Nessuno!
L’indignazione è forte tra quanti vivono ogni giorno a diretto contatto con le vittime dell’egoismo. I più sinceri puntano il dito contro quella che definiscono la “Borsa valori della disperazione”: ogni mese circolano, tra i pochi beninformati, notizie riservatissime su bandi regionali o europei destinati a strutture che si occupano di immigrazione, tossicodipendenza, disagio psichico, infanzia abbandonata e altre categorie della sventura. Basta avere un bel progettista dotato di un hard disk pieno zeppo di meravigliosi progetti da clonare, adattare, ritagliare e incollare, infilarci dentro le paroline magiche del momento: “mission”, “criticità”. E il gioco è fatto. A seconda del settore in cui si rendono disponibili i nuovi fondi, e soprattutto in base ai capricci momentanei del politico di riferimento, queste strutture cambiano pelle e finalità. Così i soldi finiscono nelle tasche dei soliti ignoti, mentre i senza fissa dimora muoiono assiderati o carbonizzati. È l’ideologia dei mali comuni e beni privati. L’accesso alle risorse pubbliche rimane un fatto privato, mentre i problemi sociali spettano alla collettività.
Sono poche le associazioni che si dedicano alla solidarietà per un senso di reale comunanza, nell’ottica di una cittadinanza attiva. Si riconoscono da un comportamento inconfondibile: non aspettano che i problemi bussino alla loro porta. Vanno a cercarli. E quando accade una disgrazia, non scaricano le responsabilità su chi avrebbe scelto d’essere diseredato o senza fissa dimora. Peccato che non la pensino così i responsabili della Casa San Francesco di Cosenza, un dormitorio e una mensa per i poveri all’attivo. Secco il loro commento alla tragedia dei migranti carbonizzati in via XXIV maggio: “… a volte, alcuni nostri ospiti non hanno una reale volontà di uscire dal disagio”. Eh già, perché non sempre coloro i quali vivono per strada sono compatibili con i rigidi regolamenti di chi dovrebbe accogliere. Una cosa è certa: a volte le regole servono solo per quelli che non sanno regolarsi.
Claudio Dionesalvi
www.manifestiamo.eu marzo 2013
 
 
 

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