Nel nome di Pilerio Canaletta

Ci sono infiniti modi di fare cultura popolare. C’è l’antropologia degli studiosi che scoprono vecchie e nuove forme di espressione umana, le catalogano, spesso archiviandole in contenitori asettici, come quei collezionisti di insetti che si divertono a tirarli fuori nel bel mezzo di convegni o documentari. Poco importa che si tratti di vermi, larve o farfalle. Gli “entomologi” scongelano i loro esemplari, li esibiscono trionfali ed euforici, ci costringono ad ammirarne le caratteristiche, a prescindere dal naturale senso di nausea che suscita in noi la vista di certe creature.
A Cosenza, da quando Sergio “Canaletta” Crocco ha deciso di portare in scena le sue poesie, i tradizionali collezionisti di reperti della cosentinità, gli esperti di cibo e parole locali, sono andati in crisi. Finalmente barcolla una concezione museale della cultura popolare, confezionata per accaparrarsi qualche soldino con progetti e progettini, ritenendo che sia sufficiente descrivere fatti e fenomeni, ma dimenticando di viverli in prima persona attraverso una narrazione partecipe. Da qualche settimana, quel mondo non è più territorio esclusivo di dialettologi, intellettuali e presunti geni della satira o della tragedia. Lo viviamo tutti, persino coloro i quali si sentono esclusi da certi contenuti perché nella vita non hanno fatto in tempo ad assimilare i linguaggi necessari per coglierli. Sembrano lontani anni luce i tempi dei servizi della RAI regionale che com’è noto dedica preziosi minuti del notiziario a patetiche sagre del cuddruriaddru e della soppressata, ritratti di una Calabria sterile, passiva e mangereccia.
Oggi, grazie soprattutto a Sergio e pochi altri artisti del pianto e della risata, se si vuole accedere all’infinito serbatoio di saggezza che la strada ci offre, chiunque può farlo, a costo zero, senza doversi sciroppare seminari sulle lagane e ceci, workshop sui broccoli di rape e salsiccia e convegni sulla malavita. Sì, perché la prima vera vittima della messa in scena della vita di “Pilerio, cosentino medio” è proprio la mistica della malandrineria, sinora quasi mai scissa dalla nostra cultura popolare. Sembrava quasi che non si potesse parlare con l’accento cosentino, allargare le vocali, sonorizzare certe consonanti, mozzare le ultime sillabe, senza essere tacciato di mafiosità. S’è creata, nel secondo dopoguerra, un’equivalenza fastidiosa e assurda tra il gergo della mala e la cosentinità. Grazie a Pilerio, le due strade si separano. Da una parte “Oi fraaa’, a canusci a geeente”, dall’altra l’ironia sguaiata che da sempre contraddistingue chi abita ai piedi del colle Pancrazio. Basta dare un’occhiata alle cronache degli antichi viaggiatori che attraversarono queste terre, per rendersene conto: Cosenza fa eccezione. Non siamo sempre stati così rassegnati, sottomessi e omertosi. Questi miti negativi si sono andati affermando dopo l’invasione piemontese nell’800, l’importazione della ‘ndrangheta a inizio ‘900, e l’accettazione di una subcultura democristiana nel secondo dopoguerra. I testi di Canaletta divertono e appassionano proprio perché, cosentinamente, buttano giù la dimensione del “volemose bene” e dello “scurdammoce o’ passato”. Al contrario, sembrano dire: litighiamo pure, diciamoci tutto in faccia, teniamo bene a mente i nomi e i cognomi di chi in questa terra ha provocato disastri sociali e politici. Nulla a che vedere, dunque, con la mania del folklore, tantomeno con la ricerca dell’identità locale che tanti guai sta seminando nel nostro tempo. Pilerio rappresenta un semplice recupero della nostra dignità, la voglia di divertirci insieme, di raccontarci e sentirci raccontati. Il Cosentino abbatte una volta per tutte il proprio complesso d’inferiorità, quello che ancora oggi spinge tante famiglie di borghesi “arricchisciùti” a dire ai propri figli: “non parlare in dialetto”. Quel dialetto che negli anni settanta dovevi stare attento a ricacciarti in gola quando stavi a scuola, altrimenti rischiavi di beccarti una raffica di bacchettate dalla maestra. Quel dialetto che persino in curva Sud, luogo deputato alla riproduzione cantata dei linguaggi giovanili, non potevi associare ai cori, perché eri subito bollato come “tamarro”.
Con Canaletta il vernacolo non è più folklore, bensì vita reale, tragicommedia, poesia della strada. Una comunità umana, quella che ha vissuto il pieno della propria esistenza negli anni ottanta, si ritrova e riesce a dialogare con gli under 20, quasi a voler testimoniare che la parola viva ha ancora un valore relazionale inestimabile, alla faccia del web 2.0! Partecipano tutti, non solo i professionisti del palcoscenico. È significativo che la richiesta di partecipazione gli pervenga incessante anche, e soprattutto, da persone che non vivono da protagoniste della vita pubblica cittadina. Tutto questo, senza chiedere l’elemosina! Le performance, che sinora non hanno richiesto enormi sforzi organizzativi, viaggiano libere dall’odioso patrocinio istituzionale, una tangente con la quale l’attuale classe politica al potere in Calabria ha zittito e fagocitato le migliori intelligenze.
Ecco, quello di Canaletta è solo un ennesimo, tenero, urlo ribelle. In fondo Sergio continua a fare quel che faceva da capocoro della curva Sud: non lancia più i cori, ma chiama uomini, donne e bambini a intonare un inno alla libertà. Le “opere di bene” ci sono pure, sullo sfondo della sua performance. Ma i fiori, nonostante siano bellissimi, sono rose luminose cariche di spine. Provate ad afferrarle e vedrete.
Claudio Dionesalvi
Cosenza Sport, 10 dicembre 2012

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