Qualcuno salvi il Messico, qualcuno salvi gli abitanti di San Salvador Atenco.
In una domenica d’estate si dispongono a semicerchio, circondano d’affetto la delegazione italiana dell’associazione “Ya Basta” e scandiscono a pugno chiuso uno slogan che dalle orecchie scende lungo la schiena risalendo il cervello: “Lucha lucha lucha, no dejes de luchar por una causa justa de tierra y libertad”.
È un paesino collegato a Città del Messico da pochi chilometri di un’autostrada senza illuminazione, ma obiettivamente più sicura della Salerno-Reggio Calabria. Donne e bambini qui sono poveri ed accoglienti. Nei loro slogan urlano la voglia di continuare a lottare per il diritto di calpestare la terra e respirare libertà. Meravigliosi i bimbi di Atenco. Figli di floricultori e contadini dagli occhi aztechi e la pelle opaca.
“Se puede, se puede?”. Chiedono alle attiviste italiane se abbiano voglia di giocare insieme. Impugnano gusci d’uova svuotati e riempiti di coriandoli e… farina. Li spiaccicano in testa alle ragazze di “Ya Basta”, che ricambiano con abbracci, carezze e qualche dolce imprecazione nei diversi dialetti italici.
Poi tutti si sciolgono in una foto di gruppo.
Molti giovanissimi messicani vogliono farsi immortalare con Enrico, pizzaiolo, veronese ma del Chievo, il più giovane della comitiva mediterranea. “Ya Basta”, che da oltre dieci anni lavora in Messico, e altrove, con progetti sociali molto concreti, sta attreversando in queste settimane diverse esperienze di zapatismo urbano.
Dalla primavera 2005, da quando cioè nella Selva Lacandona del Chiapas è stata pronunciata la Sesta Dichiarazione che chiama i sognatori di tutto il mondo a formare una rete globale di autonomia contro il neoliberismo, il cammino zapatista è nuovamente uscito dai territori autonomi, dove nel 1994 scoppiò la rivolta indigena guidata dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Oggi si sparge nelle vene della metropoli, nei rivoli delle periferie.
Già nel 2001, con la “marcia del colore della terra”, il suo messaggio di dignità fu lanciato al Messico ed a tutto il mondo. Ora è il tempo dell’Altra Campagna, un tentativo indefinito di democrazia dal basso, in alternativa al gioco elettorale delle due maggiori formazioni politiche che si sono sfidate di recente ed aspettano ancora di sapere se ha vinto la destra o la sinistra, a causa dell’esigua differenza di voti conquistati. In effetti questo Paese è una polveriera. L’aria è tesa. Il Pan di Calderon ha ottenuto 250mila voti in più del Prd guidato da Obrador, che denuncia brogli. Il verdetto della corte federale elettorale è previsto per il prossimo 6 settembre.
Ma gli zapatisti hanno scelto di stare fuori da questo gioco. Preferiscono viaggiare a sinistra, ma “in basso”.
Gli attivisti metropolitani accompagnano la delegazione italiana nel suo cammino nella megalopoli. Sospirano: “In Messico siamo in guerra col governo”. E non si tratta del conflitto elettorale.
Ad Atenco, dove l’Altra campagna era passata ad inizio di primavera, il tre maggio scorso c’è stata una battaglia, anzi un’imboscata. Tutte le polizie del Paese hanno fatto un’operazione per sgomberare il presidio dei floricultori che lottano da anni per non farsi espropriare la terra. Qui il governo ha dato il via libera per costruire un centro commerciale “Wall Mart”, proprio nella piazza in cui gli abitanti vendono da sempre i loro fiori. E così è scattata la rappresaglia. La polizia si è lasciata andare a saccheggi, deportazioni e stupri. Due ragazzi sono stati uccisi e decine di manifestanti arrestati.
I progetti di aeroporti e ipermercati, contro cui lottano gli abitanti di Atenco, rientrano nel Nafta, un accordo di libero commercio che riguarda tutto il nord del continente e si estende all’America latina, un piano di chiaro segno neoliberista.
Il disegno è brutale. La polizia mexicana non è stata da meno. Tra le ragazze stuprate al termine del blitz, c’erano anche due spagnole e una tedesca.
Mentre offrono a “Ya Basta” tortillas ed abbracci, gli abitanti di Atenco ricordano e raccontano. A distanza di quasi tre mesi dalla mattanza, le piaghe restano aperte. Questo è il Messico, ma sono lontani i villaggi turistici italiani in riva all’oceano. Molta terra e poca libertà.
È domenica ad Atenco. C’è una grande assemblea nel centro congressi dedicato ad Emiliano Zapata, rivoluzionario simbolo per milioni di oppressi. Il suo spirito si materializza in un altro “Spartaco” di questo tempo. Ci sono soltanto gli attivisti italiani e qualche mamma col bambino in braccio, quando nel salone entra un uomo col passamontagna, accompagnato da una scorta baffuta e disarmata. Il subcomandante Marcos, pipa in bocca e sagoma massiccia, arriva in sala come uno spettatore qualsiasi. E’ l’ospite d’onore, eppure il “delegato zero” si presenta per primo ed aspetta paziente, seduto al tavolo delle conferenze. Attende il pueblo, che entra lentamente. Pochi minuti dopo, davanti a centinaia di braccia che impugnano il machete, simbolo di questi lavoratori, Marcos usa, con sapienza antica, l’arma preferita dagli zapatisti: la parola. Scioglie i concetti di “Autonomia, terra e libertà” in aneddoti, metafore, racconti. Non si può innovare il neoliberismo. Bisogna creare un altro mondo. Spiega i motivi per i quali è stata interrotta l’Altra campagna, in segno di solidarietà alle vittime della repressione. Inoltre, il suo esercito in Chiapas ha dichiarato l’allerta rossa, chiudendo i rapporti col resto del mondo. È un atto di condivisione, un periscopio virtuale. Costringe tutti gli uomini e le donne che si presentino nella selva Lacandona per parlare con gli zapatisti a “non guardare noi, bensì rivolgere lo sguardo alla tragedia della gente di Atenco”.
Poi, ringrazia “i compagni arrivati dall’Italia”. Tra di loro, qualcuno ha portato una maglietta del Cosenza da donare al “Sup”. Però qui la gente soffre. Non è il momento di consegnargliela. Meglio farne omaggio ad Alessio, attivista globale, ultrà anconetano, che è umano almeno quanto il subcomandante. L’uomo col passamontagna intanto esce dalla sala, mentre la folla intona: “E – Z – L – N”. Messicani e italiani gli stringono la mano. La scorta si arrende a Loredana che arriva più vicina di tutti e per poco non lo bacia.
Dopo l’incontro si torna tramortiti ed euforici a Città del Messico, nel Distrito Federal, un mostro di cemento abitato da 26 milioni di persone. Qui nel XV secolo gli aztechi combatterono una guerra spietata contro la città di Tlaxcala per assicurarsi prigionieri da sacrificare, in omaggio al dio Huizilopochtli, affinché permettesse al sole di sorgere ogni giorno. Forse per questo piove sempre! Odore di frittura, dolci, tacos e pollo arrosto. Dalle “tiendas” piazzate ad ogni angolo della strada s’alza un fumo denso. La polizia ti ferma, chiede i documenti. Hanno facce da delinquenti. Si accertano che sei italiano, ti portano via dieci euro e spariscono nel nulla. In alcune linee della metropolitana, gli agenti della sicurezza dividono i maschi dalle femmine, perché violenze carnali e molestie sono all’ordine del giorno. Bisogna stare attenti a poliziotti, tassisti-rapinatori e soprattutto all’acqua, che non è potabile.
L’acqua minerale e’ prodotta dalla Coca Cola, ma quella del rubinetto non e’ buona neanche per lavarsi i denti. Se bevuta, provoca un’infezione intestinale fastidiosissima: nausea, coliche, diarrea e insistenti “sedute” in bagno, fino ad un massimo di nove in quattro ore. La carovana italiana e’ decimata. Tutti attribuiscono la diarrea alla maledizione di Montezuma, ultimo imperatore azteco, fatto fuori dagli spagnoli. Da cinque secoli colpisce le viscere degli stranieri che mettono piede sul suolo messicano. A dire il vero qui un po’ tutti soffrono di problemi intestinali, altrimenti non si spiegherebbero le dimensioni minuscole del water. Alla base, ha un “collo” strettissimo, che non potrebbe mai contenere le robuste feci europee.
Tutto sa di ristrettezza. I ricchi non mancano. Tuttavia, i poveri sono una marea. Un insegnante guadagna l’equivalente di 200 euro al mese. La sanità pubblica è pressoché inesistente. In ospedale un intervento di appendicite costa 2000 euro, in clinica privata 5500. E così la gente per sopravvivere le inventa tutte. Gli interventi chirurgici si fanno tra amici, in casa.
Autogestione e rivolta sono un fatto quotidiano. Nei giorni successivi, la carovana di “Ya Basta” visita Xocimilco, dove si sperimenta l’autonomia zapatista fuori dal Chiapas. Da secoli, i contadini riempiono il lago di terra ed arbusti. Creando dei “chinampas”, cioè terrapieni, hanno costruito un sistema di canali. Coltivano fiori e verdura. Producono le “alegrias”, dolci buonissimi a base di cereali. Lottano contro i progetti governativi di costruire campi da golf e svendere la terra ai giapponesi, che vengono a villeggiare qui e con i loro motoscafi producono un moto ondoso che distrugge l’ecosistema.
Nella laguna, da sempre si viaggia sulle “trajineras”, gondole. Sotto il pelo di quest’acqua apparentemente morta, vivono tante specie, tra cui gli xolotle, simpatici lucertoloni in via d’estinzione. Sono capaci di rigenerare quasi tutte le parti del proprio corpo in caso di mutilazione, ma non resistono alla modernità ed ai residui di combustibile scaricati dalle barche a motore.
Gli zapatisti di Xocimilco ospitano la delegazione di “Ya Basta” su una canoa dedicata a Digna Ochoa, un’avvocata attivista dei diritti umani uccisa tre anni fa, nel suo studio legale, da sicari del governo. Guidano i compagni italiani in un centro di riproduzione delle specie locali, dove si lavora alla salvaguardia degli xolotle e della rana-toro. Gli attivisti del “caracol” di Xocimilco parlano con orgoglio del presidio che da mesi piantona giorno e notte il carcere di Tuluca, “dove sono detenuti compagni arrestati per i fatti di San Salvador Atenco”.
Sono difesi dall’avvocata Barbara Zamora, che ci riceve il giorno dopo nel suo studio tappezzato di foto del “Che” e Marcos. Parla con tale compostezza, da evocare il nostro Peppino Mazzotta, principe del foro bruzio, onnipresente nei pensieri di chi lotta. Come lui, è una donna sulla cinquantina, molto bella, impegnata da sempre. Racconta di violenze indescrivibili ai danni dei suoi assistiti, udienze svolte senza la difesa e violazioni continue dei diritti umani. Spera che la comunità internazionale intervenga per chiedere spiegazioni al governo messicano. Uscendo, a poche centinaia di metri dal suo ufficio, sulla strada campeggia un cartellone pubblicitario che invita gli europei a gustare il mare di Cancun.
In effetti, i Messicani sono disponibilissimi con noialtri. In una biglietteria, dove bisogna prenotare un pullman di seconda classe per raggiungere la cittadina di Oaxaca, Alessio di “Ya Basta” incontra qualche problema. I posti disponibili non sono sufficienti per tutti. Ma il bigliettaio ha un’illuminazione. Telefona al suo capo: “C’è qui una comitiva di italiani. Sono campioni del mondo. Non possiamo rimandarli indietro”. Immediatamente si rende disponibile un altro autobus, guidato da un autista regolarmente ubriaco di mezcal.
A Oaxaca, un centro molto turistico distante una notte di viaggio da Città del Messico, migliaia di insegnanti occupano la piazza del paese e alzano barricate con l’appoggio dell’intera comunità. Da mesi rivendicano diritti come l’aumento degli stipendi e l’acquisto di materiali didattici. Anche qui il governatore locale, un certo Ulises, ha provato a fare la voce grossa. Nella notte del 14 giugno la polizia è arrivata in forze, col solito repertorio di lacrimogeni, cariche e violenze. Stavolta gli è andata male. La gente ha resistito, riprendendosi le strade, e adesso le presidia con tanto di “tiendas”, tacos e striscioni. In piazza possono entrare tutti, tranne lo Stato. E adesso tutto il paese chiede le dimissioni di Ulises.
(barricate ad Oaxaca)
La carovana italiana lascia questa città meravigliosa nella notte. Bisogna stare attenti. La legge messicana parla chiaro: agli stranieri è fatto divieto di partecipare alle vicende politiche della nazione, pena l’espulsione immediata. Destinazione finale: il Chiapas, dove si va a studiare il sistema educativo zapatista. Sul pullman passa di mano in mano una copia del quotidiano “La Jornada”, una specie de “la Repubblica”. C’è una pagina dedicata all’Altra campagna del subcomandante Marcos. L’articolo ricostruisce il cammino fatto sinora ed elenca anche le tappe preparatorie, alcune delle quali si sono svolte in Europa. Sono menzionate anche due città italiane. La prima forse è Bologna, ma il cronista cade in un refuso e scrive “Bisegna”. E poi c’è una cittadina del sud. Il suo nome è scritto correttamente: “Cosenza”.
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