Tra concertazione e consolazione

Domenico Cersosimo è un economista, docente di economia regionale presso l’Università della Calabria. Una delle persone più indicate per un’analisi sui patti territoriali.
Professore Cersosimo, quali sono gli obiettivi dei patti territoriali?
“Sono almeno due. Il primo economico, cioè far crescere il tasso di accumulazione locale, aumentare gli investimenti microeconomici nell’area del patto. Ancora meglio se sono tra loro interconnesssi, quindi integrati, in modo da identificare una sorta di progetto organico di sviluppo, una filiera di produzione, una catena del valore completa. Ma spesso non succede”.
Crede sia questa la finalità centrale?
“No, forse è la meno importante. È una specie di “carota” che il governo ha messo davanti agli attori locali. Il vero obiettivo è il cambiamento socioistituzionale. Quello, cioè, di infittire la rete delle relazioni orizzontali e “costringere” le istituzioni e le organizzazioni locali ad interloquire ed a giocare in modo cooperativo. Un gioco diverso e più produttivo del precedente”.
Di cosa si tratta?
“Se l’associazione industriale parla sistematicamente con il sindacato, e a loro volta insieme dialogano con le istituzioni locali, alla fine si crea una fiducia reciproca, cresce il capitale sociale e lievitano le condizioni per lo sviluppo locale, che oggi si nutre molto di condizioni non mercantili. Nel passato non era così. Nell’epoca del fordismo contavano pressoché unicamente le imprese, la fabbrica, la produzione. Da qualche tempo ci si è accorti che contano molto le culture locali, il capitale sociale, l’efficienza amministrativa, la sicurezza e la coesione sociale, ossia gli ingredienti extraeconomici dello sviluppo. Dunque, l’obiettivo del patto è creare beni pubblici. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove sono particolarmente scarsi”.
Cosa intende per beni pubblici?
“Uno sportello unico, per esempio, consente uno snellimento procedurale. Anziché stare mesi e mesi per avere un’autorizzazione, con uno sportello unico si può avere in poco tempo e soprattutto in tempi certi. Rapporti basati sulla fiducia reciproca sono un modo per ridurre i cosiddetti costi di transazione, ossia i costi connessi all’uso del mercato”.
Lei sostiene che il patto territoriale è importante perché attiva reciprocità tra gli attori locali. Pagano un prezzo nel breve periodo, per avere un beneficio nel lungo?
“In un certo senso, sì. Poniamo che io sia un Sindaco. Il prezzo da pagare è la disponibilità a rilasciare concessioni edilizie in 15 giorni. Con una delibera del consiglio comunale, decidiamo che entro 15 giorni le concessioni saranno rilasciate a tutti, sia a quelli della mia parte politica, che all’opposta. Diventa una certezza, un bene pubblico. E se non li rilascio io, ci sarà un commissario, un Prefetto, che le rilascerà per me. In questo caso pago un prezzo, perché sto perdendo potere discrezionale. Ma se il mio Comune diventa più efficiente e gli imprenditori sanno che in quest’area le autorizzazioni si concedono in modo trasparente ed in tempi certi, si localizzeranno nel Comune, e quindi nel lungo periodo ci saranno più occupati ed un’economia locale dinamica. E così è molto probabile che aumenterà il mio consenso elettorale”.
E i sindacati ?
“Firmano protocolli che prevedono un salario d’ingresso più basso di quello contrattuale. I lavoratori saranno molto arrabbiati e non si iscriveranno. È probabile, tuttavia, che quel provvedimento sottoscritto nel patto permetterà alle imprese di essere più forti, sopportare costi più bassi inizialmente, e rafforzarsi. Successivamente, una volta divenute solide, potrebbero garantire occupazione permanente e non precaria. È ovvio che aumenterebbero anche gli iscritti al sindacato”.
Ma nella realtà il gioco funziona veramente?
“Spesso nei nostri patti gli attori non pagano un “prezzo”. Piuttosto che concertazione è consociazione. Sono coalizioni collusive. Cioè si mettono insieme attorno ad un tavolo, fanno finta di concertare perché sanno che quello è il nuovo modo di drenare spesa pubblica centrale: incentivi per le imprese e infrastrutture per il territorio. Nel passato bisognava andare dal sottosegretario, o bussare alla porta del segretario nazionale del partito. Erano relazioni verticali. Adesso, c’è un nuovo modo di giocare: ci si siede intorno ad un tavolo e si fa finta di collaborare”.
Come si può superare questo costume?
“Il problema è realizzare concertazione con costi. Chi si siede deve pagare un ticket, che non deve essere per forza di natura finanziaria. Qui a Cosenza, per molti aspetti si è trattato di una coalizione collusiva. Si sono seduti in tanti, ma il ticket non lo ha pagato quasi nessuno. Si trattava dei primi patti, e quindi era anche difficile avviarli. Se di fallimento si tratta, però, non è legato tanto all’andamento dell’occupazione nelle imprese incentivate, che ovviamente non va trascurato. Poi si vedrà, gli occupati cresceranno. Piuttosto, sono preoccupato più del fatto che non è cambiata la geografia delle relazioni e del potere locale. Il patto cioè non è riuscito a fare emergere una nuova classe dirigente, un nuovo modo di rapportarsi allo sviluppo, una nuova rete istituzionale”.
La flessibilità può essere veramente una ricetta praticabile per la Calabria?
“È già iperflessibile. Nel settore privato, per esempio. Nelle piccole imprese, negli studi professionali, siamo in condizioni di troppa flessibilità. Bisognerebbe introdurre qualche rigidità”.
Gli imprenditori quale vantaggio ne trarrebbero?
“Quando il mercato del lavoro è troppo fluido, non scattano meccanismi di fidelizzazione del lavoratore alle imprese. Un bravo ingegnere laureato con ottimi voti all’Università della Calabria meriterebbe un salario almeno pari a quello di un suo collega di Milano, dove si guadagnano tre milioni e si vive certamente in un orizzonte di opportunità professionali ben più ricco e gratificante. A Cosenza, un ingegnere informatico percepisce intorno ad un milione e settecento al mese. Sarebbero necessarie “gabbie salariali al contrario”, perché qui c’è un deficit di queste figure professionali decisive per lo sviluppo. Non si dovrebbe perderle”.
E nel pubblico?
“Come è noto la sfera pubblica è molto estesa nel Sud, influenzando circa i tre quarti del reddito. Lì c’è una rigidità eccessiva. Se si deve introdurre flessibilità, bisogna farlo proprio nel pubblico impiego. In larga parte dei settori privati meridionali il problema odierno è quello di aumentare i salari che sono fermi da troppi anni. Ci sono lavoratori che hanno salari di povertà e giovani laureati che lavorano anni e anni senza retribuzione alcuna. Il problema vero è che si fa spesso riferimento alle esperienze internazionali, ma si dimentica che in Inghilterra o in Olanda c’è un sistema di welfare molto più raffinato e sofisticato del nostro. In quei Paesi i disoccupati hanno sussidi paragonabili ad un normale livello salariale. Qui c’è un problema di tempi. Prima le garanzie di Stato sociale comparabili a quello degli altri Paese, e poi un’ulteriore flessibilità”.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 23 marzo 2002

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