Braccati come pellerossa e scacciati dalle loro terre come i profughi kosovari, all’alba del 7 Aprile 1979 centinaia di militanti della sinistra rivoluzionaria italiana furono catturati, perseguitati e sottoposti a restrizioni della libertà. A Cosenza, ed in generale nel sud Italia, l’operazione non ebbe le dimensioni delle città del nord. Oggi, le persone che furono travolte da quell’ondata di repressione, spiegano che in città non ci fu un “7 aprile”, ma qualcuno precisa che l’attacco dello Stato al movimento rivoluzionario coprì un arco di tempo non inferiore ai tre anni.
Da un punto di vista simbolico, il ’79 rappresenta una fase intermedia, il momento più caldo, di un’offensiva che a Cosenza si aprì il 5 aprile del ’78, quando in un appartamento di Licola in provincia di Napoli vennero arrestati quattro militanti dei Primi Fuochi di Guerriglia. Nelle settimane successive fu setacciato l’ambiente universitario di Cosenza. Le perquisizioni vennero effettuate agli ordini del generale Dalla Chiesa. Molti i fermi e gli arresti. Due anni dopo, sempre nell’aprile, ma del 1980, in seguito alle dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia originario di Gagliano in provincia di Catanzaro, in Calabria scattò una nuova operazione che portò all’arresto di numerosi cosentini, accusati di aver costituito un’associazione sovversiva. A circa un anno di distanza, il processo fu celebrato a Cosenza. Nella città dei Bruzi, in seguito alla persecuzione dei militanti dell’autonomia, si aprì un intenso dibattito sul garantismo e la necessità di assicurare i diritti elementari ai comunisti accusati di terrorismo.
Nella sinistra, spiccavano due opposti orientamenti: da una parte quello “forcaiolo” del Pci, che vedeva nelle organizzazioni dell’antagonismo sociale una sorta di congiura per demolire l’immagine del partito; dall’altra i socialisti che facevano riferimento alla figura dell’attuale sindaco Giacomo Mancini, su posizioni apertamente garantiste. Mancini non esitò a prendere le difese dei militanti arrestati o costretti a riparare in Francia, sgomberando il campo da un vecchio e abusato luogo comune, secondo il quale si trattasse di semplici delinquenti, al soldo di chissà quale entità segreta o potenza straniera. Negli occhi di chi partecipò a quella stagione di lotte, oggi è facile scorgere la gioia di averne fatto parte, ma anche il senso di smarrimento che si impadronì dei militanti quando lo Stato intervenne in modo brutale, provocando una piccola diaspora.
I protagonisti del ’77 e degli anni che seguirono, rievocano volentieri fatti ed aneddoti. Una delle figure più presenti è quell’avvocato Tommaso Sorrentino che per primo, in un’aula di tribunale della Liguria, riuscì a smontare uno dei castelli accusatori costruiti dagli apparati repressivi per incriminare i militanti del movimento. Qualche anno dopo, anche Sorrentino fu costretto a lasciare il territorio. E un’altra storia emblematica è quella di “Pedro”: Pietro Walter Maria Greco, un autonomo calabrese ucciso dalla polizia a Trieste nel 1984. Era disarmato. Qualcuno ricorda di averlo incontrato solo due sere prima che lo ammazzassero: latitante, ma sereno.
Nel racconto di chi ha pagato sulla propria pelle, scorrono le immagini di una generazione che non ha lasciato traccia nella fantasia dei giovani del terzo millennio, pur avendo contribuito a conquistare diritti, spazi di democrazia, libertà.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 7 aprile 1999
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