Acri, una protesta contro l’ingiustizia

Passeggiando per le vie di Acri, si respira un’aria tranquilla. La casalinga rientra con la busta della spesa, il fumo dei caminetti… ma basta imboccare una stradina in salita per capire come la situazione sia meno serena di quanto potrebbe sembrare a prima vista.
Dei disoccupati e della loro protesta si è parlato tanto negli ultimi mesi. Spesso per comodità di ragionamento, si è fatto ricorso ad alcune semplificazioni, che rischiano di farci perdere di vista l’esatta natura del problema. Cosa spinge duecento persone e le loro famiglie ad occupare il palazzo municipale per quattro lunghi ed estenuanti mesi? La voglia di lavorare? Sì, certo, ma non solo quella. Lontani dai flash delle macchine fotografiche, gli occupanti raccontano la loro storia: «Quando nel mese di giugno siamo andati dal sindacalista, gli abbiamo detto: Devi darci una mano, perché non ce la facciamo più. Pochi di noi lavorano – spiega un portavoce – e quelli che un reddito ce l’hanno, dipendono dai capricci del capo di turno. Viviamo alla giornata, se ci scappano i piedi, cadiamo con il sedere per terra e ci facciamo male, noi e le nostre famiglie». Risposta del sindacalista: «Non ho tempo da perdere con voi. Devo preoccuparmi degli altri compaesani, che un posto lo hanno e bisogna difenderlo. Un sindacato deve tutelare chi lavora, gli altri non ci interessano».
Di fronte ad una porta sbattuta in faccia le alternative sono due: prendere un treno e trapiantarsi in un altro angolo del pianeta, oppure aggrapparsi alla propria terra ed urlare più forte di tutti, fino a quando si accendono i riflettori dei mass-media. Così è stato, e questa storia non è finita. Ieri, i disoccupati erano ancora lì. Intorno al palazzo municipale, il clima era quello del secondo dopoguerra quando i contadini occupavano le terre. Un’atmosfera tesa, ma anche tanta armonia: quel sentimento che nasce spontaneo tra gli esseri umani che decidono di alzare la testa e sfidare il Potere. Allora come oggi, la lotta è per il diritto ad esistere, l’obiettivo è la riappropriazione di un bene pubblico, che appartiene ai cittadini. Le terre occupate, come il palazzo comunale: simboli di una partecipazione negata. «Il Municipio – spiegano i disoccupati – è sempre stato in mano ai politici, che hanno fatto quello che hanno voluto. Adesso che abbiamo ottenuto il finanziamento di quattro miliardi, tutti ci chiedono di rispettare le legalità. Ma per cinquant’anni questa legalità non l’ha rispettata nessuno. Sono stati assunti ed avviati al lavoro parenti ed amici di chi governava il paese. Quando abbiamo deciso di occupare, lo abbiamo fatto soprattutto per denunciare questa situazione». Tra i messaggi che da Acri sono stati lanciati, questo è passato inosservato. Così come nessuno si è accorto che il palazzo municipale è bloccato nelle funzioni ordinarie, ma al suo interno si svolge una regolare attività “politica”, nel senso antico del termine, che vuole dire costruzione dal basso della città e partecipazione alla vita pubblica. Il salone consiliare pieno di gente che discute, riflette, progetta e si ricrea, è un fatto politico e come tale deve essere tratto. Poi, al di là delle semplificazioni, c’è tanta indignazione, ma soprattutto disperazione negli occhi di questi manifestanti. «Sono strumentalizzati», si sente dire in giro. In parte è vero, ma è solo una faccia del problema. «L’altro giorno, dopo tante ore di blocco stradale – raccontava ieri uno dei disoccupati più anziani – si è sentito male Giovanni. La tensione gli ha fatto venire una crisi di nervi ed è crollato. Dunque sono tanti i volti di quella protesta. Dietro le manovre di qualche sciacallo, si agitano bisogni, corpi, istanze e storie spesso drammatiche. Una situazione che rischia di precipitare, perché a qualcuno, nell’era Jervolino, potrebbe venire in mente di sgomberare il Comune con la forza. E allora accorreranno di nuovo paparazzi e telecamere. Gli “Emiliofede” impugneranno il microfono per dire la loro. Ma poi, in un batter d’occhio, i riflettori si spegneranno di nuovo e i bisogni resteranno quelli di prima. Insoddisfatti.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 29 ottobre 1998

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