Renato Curcio a Cosenza

“L’incontro è sempre una scoperta, un’invenzione di se stessi e dell’altro”. Una frase perentoria dalla bocca di Renato Curcio s’intrufola nella coscienza di chi lo ascolta. Quando ha fatto capolino dietro la porta della comunità che lo ha ospitato a Lamezia Terme, non avevo bisogno di inventarmelo, Renato Curcio, ma sicuramente volevo scoprire se esistesse davvero. Negli anni ‘70 ero un bambino, ai miei occhi le B.R. apparivano come i pellerossa. Curcio una via di mezzo tra Toro Seduto e l’inafferrabile Diabolik. Poi però lo afferrarono, uccisero sua moglie, i suoi compagni furono incarcerati. E di lui non si parlò più per tanti anni. Il Potere lo ha consegnato alla mitologia e lo ha riesumato solo in tempo di picconate, cossighiane. Così Renato sarebbe ridivenuto spettacolo, feticcio, uomo immateriale, se non avessi avuto la fortuna di sentirgli dire, quella mattina: “Come si chiamano questi fiori gialli? La Calabria ne è piena!”.
Invitato dal Centro Sociale “Gramna” e dal Laboratorio di Poesia e Arti Visive è venuto a Cosenza a parlarci del lavoro che svolge nella cooperativa editoriale “Sensibili alle foglie”. È una ricerca che Renato ha avviato tra le mura del carcere, occupandosi di gente distante fisicamente, ma costretta a vivere in una condizione uguale alla sua. Esiste infatti in questa società una zona “invisibile” in cui si muovono creature praticamente inesistenti: sono gli immigrati, gli internati dei manicomi e di tutte le altre istituzioni totali, i cosiddetti “barboni”.
La nostra società, basata sull’idea di “spettacolo” non concede alcuno spazio a questi mondi sconosciuti, perché metterne in luce l’esistenza genererebbe instabilità nell’immaginario collettivo. E allora Curcio ci presenta due vicende umane e altrettanti libri, pubblicati dalla sua cooperativa: quelli di Nunzia Coppedè e Stefano Grastollo, la prima chiusa per anni in una clinica psichiatrica, il secondo in un ospedale romano. Entrambi hanno scelto la scrittura come forma di relazione, vincendo le loro battaglie umane: oggi Coppedè dirige una comunità autogestita di “portatori di handicap” e Grastollo, scrittore tredicenne, ha sconfitto la malattia che minacciava la sua esistenza.
La folta platea dell’auditorium del “Telesio” tributa a Curcio un lungo applauso che sa di complicità. E lui si commuove. Come piange quando a tavola qualcuno gli ricorda, con un brindisi, i suoi compagni rimasti in carcere. Renato non dimentica mai di parlare pubblicamente del dramma in cui versano le loro esistenze. Dopo aver ribadito: “Io sono un detenuto e la mia libertà di parola è limitata, perché mi è consentito di parlare solo del mio lavoro”, introduce al progetto “Memoria”, una ricerca che la cooperativa sta conducendo (sociologicamente) sul fenomeno armato in Italia. Il livello della sfida è alto, si tratta di ragionare sugli ultimi decenni della nostra storia, e di farlo con i dati in mano, senza parlare gratuitamente. Portare a galla gli anni ‘70, attraverso la pubblicazione del progetto “Memoria”, vuol dire riaprire una finestra su qualcosa di sepolto e “il rimosso, dentro una società, è quanto di peggio ad una società possa capitare”. Il dibattito termina intorno alle ore 20, perché Curcio deve correre a firmare nella caserma dei carabinieri di Scalea, ma la gente lo circonda, lo abbraccia, gli stringe la mano, vorrebbe parlargli. Un maresciallo di polizia gli chiede l’autografo.
Claudio Dionesalvi
Tribuna Sud Italia, n° 9   1993

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