Vi ricordate Massimino “Nanà”?

Sette anni fa sono stato detenuto in carcere per sette giorni. Nel trasportarmi dalla questura alla galera, con me i poliziotti furono molto corretti. Non so se mi trattarono con umanità perché il mio arresto era avvenuto per ragioni politiche oppure se mi protesse l’attenzione che l’opinione pubblica riservò sin da subito all’intera vicenda.
Di certo, neanche mi ammanettarono, in quella prima fase del breve tour che feci all’inferno. Ma non è questo il trattamento riservato di solito ai detenuti comuni. Botte, vessazioni e soprusi sono prassi diffusa. Dal momento in cui ti dichiarano in arresto, devi essere fortunato, trovare gente tranquilla. Una volta giunto in cella, sperare che ti mettano insieme ad un boss. Magari sarai costretto ad osservare abitudini conventuali, come andare a letto alle 9 di sera o evitare di dire parolacce. Però, se entrerai nelle sue grazie, puoi star sicuro che nessuno ti farà del male. Fuori no, ma in galera la malavita rispetta ancora delle regole. E nella maggioranza dei casi, è rispettata dalle guardie penitenziarie, dagli altri detenuti e dai direttori degli istituti di pena. In questi giorni si sta parlando tanto della morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni fermato per droga il 15 ottobre scorso al Parco degli Acquedotti e morto il 22 mattina, vittima di un pestaggio in una cella di sicurezza del tribunale di Roma. C’è il rischio che si pensi a questa tragedia come ad un episodio, un’eccezione. In realtà, il pestaggio di Stefano è consuetudine nei confronti di tossicodipendenti, migranti, ultrà, rapinatori, detenuti privi di protezioni. Chi ricorda più la tragedia del cosentino Massimo Esposito, il ventitreenne morto nel carcere di Lecce il 30 novembre 1997? Le lenzuola insanguinate, lividi sul collo e sulla schiena, un fisico consunto e dimagrito. Si presentava così il cadavere di Massimino, “Nanà” per gli amici del quartiere di via Popilia, Ultrà Cosenza delle Brigate dell’ultimo lotto. Era stato arrestato perché ritenuto responsabile di una tentata rapina. Nei giorni successivi alla sua scomparsa, la famiglia aveva sollevato pesanti dubbi sulle cause del decesso. Massimo sarebbe rimasto vittima di un pestaggio o un’aggressione all’interno della propria cella. Nonostante la determinazione e il coraggio della sorella Loredana e di tutti i familiari, non si arrivò mai ad una verità giudiziaria. Ogni volta che si provava ad avere risposte dai tribunali, sembrava di addentrarsi in una nebbia fitta ed impenetrabile. Oggi soltanto in curva, grazie soprattutto ai suoi amici fraterni delle Brigate, Massimo è ricordato da slogan e striscioni. Che si parli di galere, stadi di calcio o marciapiedi, i dati ufficiali condannano lo Stato italiano. Le polizie di questo Paese non sono meno crudeli degli apparati repressivi di tanti altri Paesi, considerati più “incivili” sul piano delle garanzie e del diritto.  Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, dei quali un terzo circa per suicidio (1.005 casi accertati, dal 1990 ad oggi), un terzo per cause immediatamente riconosciute come “naturali”, e il restante terzo per  “cause da accertare”, che indicano tutti i casi nei quali viene aperta un’inchiesta giudiziaria. Intorno agli stadi di calcio, dal 1962 ad oggi, delle 16 vittime di episodi violenti, 6 sono state uccise dalle divise al servizio dello Stato. Dal 1975 – data di approvazione della legge Reale – al 1990,  ben 625 persone, la maggior parte delle quali disarmate, sono rimaste vittime dei proiettili di poliziotti, carabinieri e finanzieri. Oggi, come negli anni settanta, quando in Italia entrano in vigore leggi speciali, non c’è codice penale, avvocato, giudice o parlamento che possa intervenire, “la morte non è uguale per tutti”.
da Appunti di Sopravvivenza
sui 105,700 di Radio Ciroma
www.ciroma.org
Claudio Dionesalvi

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