Ferramonti, l’ingorgo della storia

È un Paese di smemorati, l’Italia. Dove il più grande campo di internamento per ebrei è lasciato nell’oblio, abbandonato dalla politica che fatica a riconoscervi la storia patria. A contrada Ferramonti, nei pressi di Tarsia, l’autostrada che unisce le estremità della penisola qui separa ciò che resta da quel che fu. Bonificate negli anni Trenta, queste terre subiscono da sempre i capricci meteorologici di due microclimi generati dalla calda brezza marina di Sibari e dall’aria umida del fiume Crati. È un campo di concentramento mutilato, quello di Ferramonti. Poco ne rimane oggi. Eppure, il recinto attuale custodisce lembi preziosi di memoria condensata. Prima che lo storico Carlo Spartaco Capogreco, negli anni Ottanta, con le sue pubblicazioni ridestasse dal nulla questa pagina di storia (Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, La Giuntina 1987 e I campi del duce, Einaudi 2004), l’amnesia collettiva del secondo dopoguerra aveva già rimosso confini, disperso documenti, riciclato manufatti.
COSÌ QUANDO sul finire del Novecento le istituzioni locali hanno avviato la tardiva «risistemazione» dell’area, il perimetro ha finito col tagliare fuori la maggior parte dell’estensione originaria del campo. I 16 ettari di terreno, un tempo punteggiati da file di baracche detentive oggi ospitano strade, case, stalle, coltivazioni e magazzini agricoli. «In questi mesi sono venuto più volte qui a Ferramonti. Sul lato sinistro, per chi arriva dalla strada principale, c’è una cascina che ha le stesse sembianze di quelle che stavano nel campo. Mi sono avvicinato e ho guardato all’interno: immaginavo la vita vissuta 80 anni fa, ma non c’erano gli internati, bensì le pecore, un gregge che ha lasciato in terra tanta lana. Poco più avanti, un’altra cascina è diventata una villa a due piani. E oltre il ponte dell’autostrada ho ‘ammirato’ i porcili, costruiti forse con gli avanzi delle baracche distrutte del campo dopo il suo doloroso passaggio». Così Adriano D’Amico, mediattivista, descrive lo stato d’animo del viandante solitario che si inoltra in questa valle.
DI CERTO, da un’osservazione superficiale, la storia di questo lager può apparire anomala, quasi bizzarra. Qui la vita quotidiana si svolse in forme differenti da altri contesti concentrazionari. Sin dal principio, matrimoni, campionati di calcio, sinagoghe, laboratori artistici, concerti di musica classica e spettacoli teatrali trovarono tempi e spazi al suo interno. È pur vero che non mancarono atti di violenza dei sorveglianti fascisti sugli internati, ma si trattò di episodi isolati. A deturpare il presunto quadro idilliaco furono soprattutto fenomeni come prostituzione e borsa nera, aggravati dal flagello della malaria. Nel cimitero di Tarsia, le tombe dimenticate di bambini ebrei deportati, stroncati da malattie, testimoniano le sofferenze di quanti vissero in quelle baracche.
In realtà fu un modello coercitivo, quello dei campi allestiti dal duce, antesignano dell’orrore nazista. Alla privazione della libertà su base etnica, di per sé aberrante, fece da sfondo – per dirla con Foucault – un vasto e mirato programma di «sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze». I reclusi erano per il 75% ebrei. Furono aggregati cinesi, jugoslavi, greci, francesi ed antifascisti italiani. Significativa la rocambolesca vicenda dei 494 ebrei slovacchi e cechi giunti qui ad inizio del 1942. Braccati dai nazisti, avevano percorso il Danubio a bordo dello sgangherato battello fluviale Pentcho che naufragò nel mar Egeo. Sulla seconda fase della storia del campo, successiva alla caduta del fascismo ed all’8 settembre ‘43, si concentrano le ricerche svolte in tempi recenti da Teresina Ciliberti, direttrice del Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia. Il suo è un paziente lavoro di scavo. «Si tratta di riannodare i fili e cogliere l’unicità di questo luogo – chiarisce Ciliberti – senza commettere l’errore di trascurare ciò che realmente fu. L’odio, la guerra ed il razzismo assumono nomi specifici in base ai luoghi e tempi in cui attecchiscono. In Italia, per venti anni, queste umane calamità hanno avuto una denominazione precisa: fascismo».
ALLORA SAREBBE il 25 aprile, il giorno in cui commemoriamo la vittoria delle forze alleate e partigiane sugli orrori del regime mussoliniano, un momento ideale per attualizzare il ricordo di Ferramonti. «Non perché in quel giorno nel campo di Tarsia sia avvenuto qualcosa di significativo – spiega Capogreco, docente di Storia contemporanea all’Unical e presidente della Fondazione Ferramonti – Nell’aprile ’45, infatti, i reclusi di questo campo, che non erano stati trasferiti al Nord, si trovavano già da tempo al riparo dalle persecuzioni nazifasciste». Dunque «corre un grave rischio – concorda Ciliberti – chi si ostina ad inserire la vicenda di Ferramonti nelle celebrazioni ricorrenti ogni anno il 27 gennaio per la giornata della memoria. Se rapportato all’abominio di Aushwitz, Treblinka, Buchenwald o Dachau, il campo di Tarsia può apparire addirittura “umano”. Ciò comporta però un appannamento della verità storica e legittima il viscido mito degli italiani-brava-gente». Il campo di concentramento calabrese, come i tanti altri disseminati nel resto della penisola, è invece una delle tracce di quanto l’Italia in quegli anni si sia macchiata anch’essa di crimini orrendi.
TUTTAVIA, in Germania i lager di Dachau, Terezin, Auschwitz e Mathausen sono luoghi di memoria e commemorazione, valorizzati e meta di migliaia di visitatori l’anno, mentre in Italia i campi di internamento fascista sono scientemente abbandonati al degrado. «Resta da chiedersi perché Ferramonti di Tarsia abbia smarrito lo spirito originario di luogo di riflessione sulla tragedia del nazifascismo – rimarca Mario Vallone, presidente regionale dell’Anpi – sulle leggi razziali e la deportazione. Per tranquillizzare le nostre coscienze è prevalso negli anni il racconto rassicurante sulle condizioni di vita accettabili vissute dagli internati, in parte anche vero, ma non è questa l’unica ragione per visitare un luogo di memoria, un campo di internamento con oltre duemila persone private della libertà. A Ferramonti si cominci ad investire risorse e si organizzino viaggi di studio e conoscenza della storia, per i turisti ci sono altri posti da vedere in Calabria».
E INVECE assistiamo al grottesco appello del presidente della Calabria Occhiuto che ha invitato i viaggiatori di religione ebraica a visitare la Calabria perché «qui c’è l’unico campo di concentramento da cui non è partito un solo internato, un solo treno per Auschwitz e dove chi lo dirigeva era uno di Reggio (Paolo Salvatore, legionario fiumano e compagno d’armi del segretario nazionale del Pnf Ettore Muti, ndr) che alla fine in qualche modo gli internati li aiutava. Dobbiamo valorizzare questa idea della Calabria che è comunque una regione di grande accoglienza». Ogni commento ulteriore è puramente superfluo.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 4 giugno 2022

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