Lesbo è una Lampedusa greca, ma senza vie d’uscita. Divenuta buco nero d’Europa, l’isola che originò i versi di Saffo inghiotte migliaia di corpi in un eterno vagare da una tendopoli all’altra. Migliaia di migranti sono ammassati in condizioni disumane ed estenuanti si rivelano i tempi per espletare le procedure d’accoglienza. Il recente rapporto pubblicato dalla confederazione di organizzazioni non profit Oxfam e dal Greek Refugees Council denuncia la situazione insostenibile nel campo Moria 2.0 e lo stato di effettiva detenzione cui sono sottoposte donne e bambini in quarantena a Megal Therma.
«Anche con il pretesto della pandemia, l’attuale management ha in sostanza chiuso le attività sportive, ludiche ed educative prima garantite grazie al coinvolgimento di centinaia di associazioni e volontari», spiega Mariafrancesca D’Agostino, docente dell’università della Calabria, autrice insieme al professor Francesco Raniolo di uno studio sul fallimento del governo europeo dei rifugiati nella pandemia. «Soprattutto si riduce lo spazio per iniziative autonome, promosse dagli stessi rifugiati. Iniziative che invece si sono moltiplicate in passato, anche perché più aderenti agli specifici bisogni di persone che chiedono di essere supportate ma non assistite passivamente né infantilizzate».
Come la politica salviniana nei giorni degli ozi del Papeete, il modello greco mira a scoraggiare gli arrivi. Eppure è ormai evidente che oltre a generare tragedie e sofferenze, questo approccio comunque non funziona.
A farne le spese sono soprattutto i bambini, che sono il 35% delle persone migranti bloccate sull’isola. «Quella che ricevono non si può definire accoglienza – spiega Mara Eliana Tunno, psicologa di Medici Senza Frontiere, dal dicembre 2020 operativa sull’isola per cercare di arginare le gravi forme del disagio psichico dilagante tra i bambini. Non vano a scuola, non imparano la lingua, soffrono per i gravi traumi che hanno subito in questi mesi. Molti di loro hanno i pidocchi e la scabbia. È un disastro».
L’entrata nel campo e l’uscita sono regolate da posti di blocco. «Ogni giorno le autorità stabiliscono un numero massimo di persone che possono uscire. I pazienti devono esibire un certificato per allontanarsi. A volte il permesso dipende dall’umore del poliziotto di turno – precisa Tunno – Per fortuna, oltre a noi, ci sono strutture di volontariato che forniscono servizi educativi e ricreativi, organizzano gruppi di pulizia e spazi di preghiera. Ogni settimana ci riuniamo per coordinarci. Sulla salute mentale, in particolare, esiste un ottimo livello di collaborazione tra di noi, operatori e operatrici delle diverse organizzazioni.
Non è facile realizzare una seduta di psicoterapia nel caldo infernale di una tenda. Quindi cerchiamo di allestire, per quanto sia possibile, spazi e tempi in cui trattare, con le dovute cautele e la fondamentale dignità, patologie mentali spesso gravissime.
La maggior parte dei bambini è disperata, annoiatissima. Giocano nella polvere di cemento. C’è una bimba di otto anni, che era normalissima prima dall’incendio del settembre 2020. Da allora lei non parla, non agisce, non comunica.
Le ultime frasi che ha pronunciato esprimevano la sua volontà di togliersi la vita. Capita spesso di sentirsi rivolgere da giovanissimi pazienti la domanda: secondo te, in queste condizioni, io sono ancora un essere umano?».
A dipingere la drammaticità del contesto è anche Costantino Tenuta, attivista di Wave of Hope for the Future, anch’egli impegnato da anni sull’isola di Lesbo. «Su circa 8000 persone presenti nel campo moria 2.0 – spiega – ci sono 2212 bambini. Le condizioni di vita sono pessime: ci sono solo 162 docce, 327 bagni, code di oltre tre ore per ricevere il cibo, le persone vivono in tende di 12 metri (con 8/10 persone ciascuna), che si allagano ogni volta che piove». I bambini non hanno accesso alla formazione governativa prevista per i cittadini.
«Prima del passaggio al nuovo campo – prosegue Tenuta – una formazione informale veniva garantita da decine di associazioni e centinaia di volontari ammessi a lavorare nel campo». Wave of hope nasce in quel contesto, come movimento dal basso, quando un profugo afgano arrivato nel 2019 a Lesbo avvia dei corsi di inglese nel vecchio campo. È un’esperienza cresciuta rapidamente grazie al coinvolgimento attivo e al sostegno economico di moltissimi rifugiati, non solo afgani. «Fino all’incendio di settembre – racconta l’attivista italiano – partecipavano alle lezioni circa 2700 studenti, che si alternavano dalla mattina alla sera. Insieme all’inglese erano stati avviati anche altri corsi di tedesco, pittura, arte».
Oggi l’associazione conta circa 70 operatori/docenti (di cui solo tre non sono rifugiati) che operano a Lesbo, ma anche nei campi sulla terraferma di Atene e Salonicco.
La vera mission dell’associazione è cercare di educare il più alto numero di persone e trovare individui “talentuosi” nelle arti, musica, grafica, sport: «Individui/bambini che possano veicolare un messaggio diverso, migliorare la percezione dei rifugiati in Europa», dimostrare con la forza dell’evidenza empirica che questi flussi rappresentano una risorsa, un’opportunità di crescita economica, sociale e culturale per tutti/e. «Crediamo molto nell’arte – conclude Tenuta – essa ha una funzione terapeutica, perché le persone processano meglio il loro vissuto, elaborano nuovi e vecchi traumi di partenza.
Di recente, abbiamo avviato un altro progetto, quando una scuola tedesca ci ha inviato delle letterine di natale con alcuni doni per i nostri bambini rifugiati. Da quel momento abbiamo infittito la corrispondenza fra i bambini e coinvolto anche altre scuole e Paesi come Belgio, Olanda, Spagna, Usa, Nuova Zelanda. La corrispondenza fra bambini ha un doppio effetto: in primo luogo si divertono moltissimo, sono sempre eccitati quando arrivano delle lettere.
Inoltre, anche in questo caso, ci permette di comunicare diversamente, di narrare in maniera nuova le migrazioni, di lasciare un ricordo positivo in piccoli cittadini europei, perché possano diventare in futuro adulti più attivi e responsabili di noi. Ora, con il passaggio a Moira 2.0, è tutto più difficile.
Non possiamo più entrare nel campo. I rifugiati continuano ad andare avanti, fra loro c’è sempre capacità di adattamento. La scuola resiste, si fa all’aperto, ma non può più contare sul sostegno di prima».
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
dinamopress.it 14 giugno 2021
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