Claudio Dionesalvi è autore di numerose pubblicazioni sugli ultrà. Tra le principali: “Comunicazione e potere nello spettacolo calcistico” (Satem); “B.D.D. romanzo degli anni zero” (Coessenza); “Scritti ultrà” (Coessenza); “La curva o il nulla” (in “Loop” n° 10, ottobre-novembre 2010); “Genesi e possibile cura del morbo razzista tra gli ultrà” (in “Nuova Rivista Letteraria”, n° 4, novembre 2016); “La strategia dell’ansia” (in Valerio Marchi “Il derby del bambino morto”, Edizioni Alegre).
In mezzo agli ultrà Claudio è cresciuto sulle gradinate dello stadio “San Vito” di Cosenza, dal 2015 ribattezzato “Marulla” in seguito alla prematura scomparsa del forte attaccante, storica “bandiera” della squadra rossoblu. Da tanti anni Claudio insegna Lettere nella scuola media di un popoloso centro della Sibaritide. Ama definirsi “docente di strada” per la didattica a cielo aperto che realizza con i suoi alunni, alcuni dei quali provenienti da un quartiere difficile. Collabora come mediattivista con “il manifesto” e cura il suo blog inviatodanessuno.it
La chiacchierata con lui si svolge tra le storiche sciarpe e i gadget da stadio esposti nel “Pogues”, un pub underground, estraneo ai flussi isterici e plastificati della vicina movida cosentina. È un luogo di ritrovo per tanti ex e attuali ultrà “bruzi”. Chiamati “Brettioi” dai Greci e “Bruttii” dai Latini (il termine si è poi evoluto in “Bruzi”), erano un antico popolo italico: pastori ribelli, abitanti nel Cosentino e in altre zone dell’odierna Calabria prima della colonizzazione romana.
Allora Claudio, ha ancora un senso una discussione sul panorama del tifo organizzato italiano?
E perché no? Si tratta pur sempre di una delle aggregazioni sociali più attraenti e – nella spontaneità – conflittuali sul piano esistenziale. In tutta sincerità, però, non sono più sicuro di essere la persona ideale per fornire delle risposte alle tue domande.
Come mai?
Perché per parlare di qualcosa, bisogna starci dentro. Una delle poche regole non scritte del fenomeno ultrà, era che per poter parlare, cioè per contare qualcosa, dovevi stare nella mischia. L’autorevolezza, intesa come ethos, dipendeva soprattutto dal tuo grado di partecipazione attiva alla vita dei gruppi: trasferte, assemblee, scontri, coreografie. Se non prendevi parte a tutto ciò, qualsiasi cosa dicessi perdeva valore. Oggi nel tifo organizzato io “non ci sto più dentro”, come recitava una vecchia canzone. A differenza di quel testo, però, continuo a non voler stare neppure “nel mondo senza senso”. Comunque lo seguo con interesse e discrezione, vado allo stadio sempre in casa, quando posso anche in trasferta. E ho mantenuto contatti con alcuni amici che ancora vivono questa dimensione, sia della mia generazione sia tra i più giovani, persino appartenenti a tifoserie da sempre ostili alla mia. Sono quelli con cui negli anni ho costruito i rapporti umani migliori.
Dunque hai “appeso la sciarpa al chiodo”?
In realtà non me la sono mai staccata dal collo. La porto più adesso che prima, soprattutto nei mesi invernali. Ce l’ho cucita addosso, anche quando vado a scuola per lavorare.
Allora un po’ “dentro” ancora ci stai?
Mi considerò un ultrà “in sonno”. Non rinnego nulla di quel che ho fatto. Anzi, ne sono orgoglioso. E lo rifarei, se il tempo fosse davvero un’illusione. Ma per quanto sia relativo nell’universo, Chronos invece scorre spietato per il genere umano. E per fortuna, modifica la realtà intorno a noi. Soltanto ubriaconi e stolti non se ne avvedono.
Oggi quindi sarebbe anacronistico?
Non so. Comunque non sono cambiato io. Nemmeno gli ultrà mi sembrano molto cambiati rispetto a qualche decennio fa. Ciò che è mutato, com’è naturale che sia, è il contesto. Ecco perché non mi basta più essere ultrà. In passato, vivere lo stadio mi aiutava a vivere fuori da esso, soprattutto a capire il mondo circostante. Era un punto di osservazione privilegiato. Oggi temo non funzioni più così. La gradinata di uno stadio è ancora abbastanza inclusiva da riflettere la società circostante, ma non più in grado di riversarsi all’esterno di sé.
Quando hai deciso di andare in letargo?
Nel 2009, appena entrarono in vigore la tessera del tifoso e le leggi speciali volute dal ministro Maroni. Andai in piazza e lo dissi a tutti gli altri in assemblea. Per me la guerra era finita.
Di quale “guerra” parli?
Soltanto chi ha vissuto in una curva il periodo storico tra la fine del millennio scorso e l’inizio del terzo, può capire che cosa è successo. In 25 anni da ultrà e circa 300 trasferte, oltre a momenti meravigliosi, ho vissuto anche situazioni molto difficili, com’è naturale che sia: due fermi di polizia da cui sono uscito malconcio, altre due volte sono finito in sala operatoria per le botte della “celere”, almeno in quattro circostanze ho visto la morte da vicino: mi hanno puntato una pistola tra gli occhi. Nel 2009 ho deciso che, almeno per quel che mi riguardava, poteva bastare. Ma non me ne sono andato da quel mondo come tanti altri hanno fatto: sbattendo la porta. L’ho fatto invece con grande rispetto verso chi ha deciso di continuare a starci dentro. E per elaborare il lutto, ma soprattutto per narrare il cambiamento di fase, ho scritto un romanzo: “B.D.D.”
Così però ha vinto lo Stato.
È stata la momentanea sconfitta di una generazione. Non è detto però che debbano perdere anche quelle venute dopo.
Non hai mai pensato di tesserarti?
No. E non me ne sono mai pentito. A un certo punto, ci vietarono tutto: striscioni, fumogeni, tamburi, bandiere, trasferte in treno, persino i cori e certe magliette. Ci spararono addosso, usarono lacrimogeni caricati con gas tossici. Infine ci dissero: adesso fatevi la tessera, altrimenti non vi permettiamo di partire in trasferta. Io e tanti altri non potevamo accettarlo. Come avremmo potuto?
Tra il biglietto nominativo e la tessera, comunque, non c’è alcuna differenza.
Non sono d’accordo. Nel primo caso, si tratta di un’identificazione. Nel secondo, è invece una fidelizzazione. La differenza è notevole. Oggi siamo identificati migliaia di volte, durante la giornata, negli aeroporti, per strada, sul web, ovunque. Ma per fortuna decidiamo ancora noi se, come, quando e con chi fidelizzarci. Non ce lo possono imporre. In altri Paesi europei, il rifiuto del supporter inteso come customer, cioè cliente, ha scatenato un minimo di dibattito. In Italia è rimasto un inalienabile principio solo per pochi.
In tanti si tesserarono.
Sì, e rispetto la loro scelta, così come pretendo che sia rispettata la nostra, cioè quella di chi decise di non tesserarsi. Ci sono interi gruppi che si sono rifiutati. Pochi, ma buoni.
Qualcuno scelse di tesserarsi proprio per continuare a lottare contro la tessera.
È vero. Ma è altrettanto indubbio che da quando è nato il mondo, lo sciopero contro un potere, una legge o un’ingiustizia consiste nell’astenersi dal lavoro, nell’insubordinarsi o nell’esodo. Ci sono state tifoserie che, pur tesserandosi, hanno prodotto atti di ribellione concreta, ai limiti dell’eroismo. Pensiamo solo ai Nocerini che nel novembre 2013 riuscirono a boicottare e sabotare il derby a Salerno, dopo il divieto di trasferta imposto dalle autorità sebbene si fossero tesserati. Il loro fu un gesto di limpida coerenza e grande coraggio: “Ci siamo fatti la tessera, adesso lasciateci liberi di andare dove vogliamo”. L’hanno pagato caro: la Nocerina è stata cancellata dalla scena calcistica nazionale. E i suoi Ultrà hanno subìto un attacco giudiziario imponente. Le istituzioni repressive e il governo del calcio, in Italia, sono molto vendicativi, in particolare quando vedono minacciati i loro interessi.
Poi comunque la tessera è stata in parte abrogata.
Sì, ne è stata attenuata l’imposizione. Non credo però che il merito sia da attribuire a quanti hanno lottato contro questo dispositivo. Lega, FIGC, ministero dell’Interno e Osservatorio sulle Manifestazioni Sportive sanno far bene il proprio mestiere: soldi, diritti televisivi, show business, manganellate e controllo sociale! La loro, dunque, è stata una scelta dettata dalla convenienza, non da una concessione di libertà o da un principio di buon senso. Nell’ultimo rapporto del Viminale, infatti, si segnala il parziale ritorno del pubblico negli stadi, dopo il relativo svuotamento registrato nell’ultimo decennio. Inoltre, si assiste a un incremento degli episodi di scontri in zone lontane dagli impianti sportivi. Una volta si chiamavano “guerre in trappola”, oggi potremmo definirle “guerre negli autogrill”.
È aumentato il livello di scontro tra i gruppi ultrà?
Più che altro, sono mutate le modalità. Anzitutto, il conflitto che in passato si verificava tra ultrà e forze dell’ordine, sembra quasi annullato. Poche volte, in anni recenti, si sono verificati episodi di guerriglia tra ultrà e celerini o baschi verdi o carabinieri. Perlomeno, non con la frequenza del passato. Si sono intensificati, invece, gli incidenti tra tifoserie. Dalla fine del decennio scorso si è andata sempre di più affermando un’idea secondo la quale per cercare di sopravvivere alla repressione, è necessario cercare lo scontro. Molti gruppi si sono convinti che la resistenza dipenda solo dalla capacità di scontrarsi con i propri simili, appartenenti a tifoserie ostili, ma anche mai incontrati prima.
D’altronde non è una novità. La violenza non è da sempre un fondamento del fenomeno ultrà?
Sì, sarebbe ipocrita negarlo. Eppure, tre elementi hanno contribuito a stravolgerlo e a dilaniarlo: la tessera del tifoso, i social network e il consumo sempre più diffuso di cocaina. La tessera ha alimentato le divisioni già esistenti, portando tantissime curve a implodere. Numerosi sono i casi di tifoserie che si sono spaccate, arrivando a scontrarsi al proprio interno. È troppo deprimente il fenomeno che si sta verificando. Ripropone un po’ quel che accadde durante il riflusso dei movimenti rivoluzionari, alla fine degli anni settanta: nell’impossibilità di contrattaccare e replicare alla repressione dello Stato e dei poteri costituiti al servizio della finanza, movimenti e collettivi cominciarono ad attaccarsi a vicenda, spesso pugnalandosi alle spalle durante una ritirata che così non fu per niente “strategica”.
E la cocaina?
Contro l’eroina lo siamo sempre stati. Eppure considera che io provengo da un gruppo che si chiamava “Nuclei Sconvolti”, quindi non mi piacciono i discorsi moralistici sul consumo di sostanze. Però la cocaina sta rovinando un’intera generazione, peggio di quanto combinò l’eroina tra gli anni settanta e ottanta. È una sostanza devastante sul piano degli effetti sociali: instupidisce, incattivisce, disgrega. Nulla a che vedere con tutte le altre sostanze psicotrope. È persino più dannosa dell’alcol. Da sempre credo che il ruolo e i linguaggi degli ultrà abbiano scarsa attinenza con l’evento sportivo. Piuttosto, appaiono riconducibili a forme antiche di spettacolo. E non penso alle arene romane, bensì alla tragedia greca. Per restare in tema di metafore, volendo scomodare Nietzsche, negli ultimi anni ha prevalso Apollo su Dioniso. Anzi, ha prevalso Marte. Pure noi ci sballavamo e non disdegnavamo lo scontro, però non era tutto. Oggi la componente creativa, situazionista, votata all’impegno sociale, esiste ancora nei gruppi ultrà, ma appare sempre più residuale. Ad avere la meglio è la dimensione muscolare. Mi capita di vedere in giro gruppi che sembrano servizi d’ordine da discoteca: impettiti come bodyguard, intruppati, bellicosi anche nell’aspetto, concentrati sullo scontro e sulla necessità di prepararsi a sostenerlo. In passato il panorama ultrà era disomogeneo, adesso i gruppi si somigliano un po’ tutti fino a sembrare quasi uguali. E l’uso diffusissimo di cocaina è al tempo stesso specchio e concausa di questa situazione.
Ma che c’entra facebook?
Nelle relazioni fra gli ultrà i social network hanno accelerato la conflittualità, alimentato le manie di protagonismo, sguinzagliato gli idioti e i vigliacchi.
Dipende dall’uso che se ne fa.
No, è il contrario: semmai dipende dall’uso che i social network fanno di noialtri. È conclamato che attraverso gli algoritmi e la profilazione, i social – e chi li gestisce o finanzia – riescono a pilotare le nostre azioni, i consumi, i comportamenti e i linguaggi. Inoltre essi sono uno strumento di polizia predittiva. Ormai gli agenti della Digos che si occupano di ultrà, non devono neanche più uscire dall’ufficio: basta seguirli dal monitor, col browser sempre affacciato sui profili social. Un tempo non era così.
Così però rischi di mitizzare il passato. Ancora questa retorica dell’età dell’oro?
No, al contrario, penso che oggi chi è ultrà meriti più rispetto di prima. Perché esserlo, è più difficile che in passato. L’epica è innata nel mondo ultrà. E la memoria storica è imprescindibile, purché non diventi opprimente. Considera pure che, pur volendomi mantenere alla larga dal “culto del vintage”, la parola “mito” per me non identifica nostalgie e anacronistici richiami “ai miei tempi”: intesa come racconto, possiede un valore costituente. Il motivo è semplice: quando non siamo noi a mitizzare le nostre esperienze sociali e le conseguenti conquiste, sono altri a farlo al posto nostro, traendone profitto. Penso che la gente della mia generazione farebbe bene a mettersi da parte, non solo allo stadio. Non si tratta di dover sparire, bensì di porsi al servizio della nuova soggettività, senza né commettere l’errore sciocco di indirizzarla, né pretendere di mandare i più giovani allo sbaraglio, proteggendosi con la propria supposta autorevolezza derivante dall’anzianità. O stai dentro o stai fuori. Se stai dentro, lo fai fino in fondo, con tutte le conseguenze materiali, penali ed esistenziali che ciò comporta, come ritengo d’aver fatto almeno finché ci sono stato. Non mi lascio catturare dal romanticismo: nutro un sentimento tra la tenerezza e la compassione – nel senso antico del termine – verso quanti all’età di 50 anni si ostinano a vivere il presente come se fossero fermi a trent’anni fa.
Non dirmi che trent’anni fa i ruoli erano diversi. Non c’erano pure all’epoca capi e gregari?
Su questo hai ragione. Però forse all’epoca in giro c’erano più personaggi pensanti. Persino i capi più rudi, quelli “brutti sporchi e cattivi”, avevano un’anima cosciente. Non voglio dire che oggi non sia così. Negli ultimi anni ho conosciuto “vecchi” ultrà dotati di grande cervello e saggezza, oltre che di coerenza e determinazione. Forse una volta ce n’era qualcuno in più. Inoltre, lo spazio che occupavamo sulle gradinate ci appariva inviolabile, spesso proprio in virtù dell’autorevolezza dei più “vecchi” che sapevano nobilitarlo.
C’è stato uno spartiacque nella storia degli ultrà?
L’uccisione di Vincenzo Claudio Spagnolo a Genova, il 29 gennaio 1995. Terrificante! Non che prima la violenza non ci fosse. Eppure quel gesto la rese cieca, pervasiva, imprevedibile, militare.
Quanto hanno risentito gli ultrà dei cambiamenti avvenuti nel calcio?
Il football, come l’economia globale, ha subìto una sorta di finanziarizzazione. Non userei più l’etichetta “calcio moderno”. Il calcio antico, ammesso che sia mai esistito, non era meno capitalista, liberista e borghese di quello attuale. Anche la malavita sulle gradinate c’è sempre stata. Savianamente, oggi i media mainstream affibbiano questo vizio capitale ad alcune tifoserie, quando hanno interesse a stigmatizzarle. Ma è chiaro che si tratta di una perfida semplificazione. Viene da sorridere – e un po’ anche da piangere – pensando che nell’era dei tornelli, della tessera e del VAR ci sia ancora spazio per il bagarinaggio, ribollito in salsa digitale. Purtroppo, ma non poteva finire diversamente, ci sono gruppi “ultrà” che in quest’inedita palude pescano a piene mai. Le eccezioni migliori resistono nelle piccole città. In provincia, nelle periferie, come sempre è accaduto, si cristallizzano gli elementi più interessanti e genuini di qualsiasi linguaggio e fenomeno. Un caso su tutti? Gli Anconetani! Nonostante gli attacchi repressivi, le vicissitudini calcistiche e la retrocessione tra i dilettanti, negli ultimi anni sono stati inimitabili nei numeri, nella compattezza, nell’attaccamento alla città e ai propri colori.
C’è mai stata una “sinistra” nelle curve?
Certo! E come dice il mio amico foggiano Francesco Berlingieri, ultrà e scrittore, ci sono sempre stati pure i socialdemocratici, i liberali, i cattolici moderati e i repubblicani.
Quanto conta l’estetica del conflitto nelle curve?
Tantissimo. È un linguaggio che attecchisce. La passione per la guerriglia urbana, lo scontro con le divise, è una forma di affabulazione, una misura per entrare in empatia con la maggior parte dei soggetti che abbracciano lo stile di vita ultrà.
Quante delle trasformazioni sociali e politiche avvenute di recente, hanno una relazione con l’immaginario degli stadi di calcio?
In anni recenti si è un po’ interrotto il flusso simbolico dalle curve verso l’esterno. Non era così fino alla fine del decennio scorso. Pensiamo a quanto il repertorio di slogan e cori abbia influenzato le forme espressive delle manifestazioni politiche per tutti gli anni novanta e oltre. Purtroppo adesso stanno trasmigrando soprattutto le sperimentazioni repressive. Il termine DASPO, “Divieto di Assistere alle manifestazioni SPOrtive”, è usato in tutti i settori. Per esempio, c’è un DASPO urbano per le categorie indesiderate dalle politiche del cosiddetto “decoro”. Ormai è dappertutto, le nostre vite sono state invase da questo acronimo. E dalle sue effettive applicazioni.
Quanto è servita ai movimenti antisistema la “lezione” degli ultrà?
Nelle situazioni di conflitto aperto, è servita. Eccome se è servita! Ricordiamo quanto accadde a Genova nel G8 del 2001. Resistendo alle cariche violente dei reparti antisommossa, i compagni presenti negli scontri di via Tolemaide e dintorni, molti dei quali abituati alle dinamiche dei tafferugli da stadio, dimostrarono un’attitudine migliore allo scontro, almeno rispetto a quanti avevano vissuto altri cicli di lotte, limitati alla sola conflittualità politica. Tale predisposizione è tornata utile in diversi altri contesti, anche in anni recenti. Per esempio a Napoli, l’anno scorso, negli scontri per la visita di Salvini, sono confluiti modi diversi di stare in piazza. Naturalmente oltre alle pratiche di compagne e compagni militanti nei movimenti antagonisti, lì si sono espresse anche modalità conflittuali tipiche degli ultrà.
Quali sono i probabili sviluppi che intravedi per i prossimi anni?
Spero in un ritorno della figura del fan, il supporter spontaneo, quello che oggi viene definito, a volte in senso dispregiativo, l’occasionale. Al momento, troppo accentrati, prevedibili e persino un po’ noiosi sembrano i gruppi ultrà organizzati. Se trovasse spazio del sano spontaneismo, sarebbe anche meno possibile la loro strumentalizzazione a fini politici. Si pensi al dilagare dei seguaci di Salvini, oggi, sulle gradinate degli stadi: questo sì che rappresenta un paradosso, un fatto che in passato sarebbe stato impensabile. Un ultrà non dovrebbe né potrebbe condividere le parole d’ordine del ministro dell’Interno, che in termini simbolici e materiali rappresenta il suo esatto contrario. Appaiono così palesi l’incapacità e la responsabilità di certi movimenti antisistemici, quelli per i diritti sociali e la difesa dell’ambiente. Avrebbero potuto tentare di convertire nella difesa di un territorio la conflittualità che per la loro intima natura le curve esprimono. Piuttosto che da presunti nemici come i migranti, i più giovani ultrà avrebbero rivolto la propria vocazione al conflitto contro gli agenti della devastazione neoliberista. Al contrario: assistiamo impotenti alla deriva xenofoba di molti gruppi, soprattutto di quelli che una certa vocazione destroide già la possedevano per indole. Il morbo razzista prolifera, è più semplice da recepire. La prassi dell’aggressione al diverso è attuabile in ogni momento, nella vita di tutti i giorni.
Dunque non esistono spiragli di cambiamento positivo?
Forse qualcosa cambierà quando cresceranno figli e nipoti dei migranti di recente ingresso. Ci vorranno anni. Eppure, molti di loro diverranno ultrà. Proveranno lo stesso senso di estraneità e rabbia avvertito all’inizio degli anni settanta dai figli dei meridionali emigrati, che popolarono le curve nelle grandi città del nord. Vivendo la medesima smania di conoscere i territori in cui vivono attraverso l’incontro con altri supporter, saranno spinti a divenire cittadini degli stadi di calcio. Allora sì che ne vedremo delle belle!
Oscar Greco
“Zapruder”, n° 48
Aprile 23, 2020
Grande come sempre…