Vivere sotto un semaforo

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Il semaforo è un oggetto carico di significati. L’incrocio tra due vie può essere teatro di incidenti stradali, ma spesso si trasforma in regno dell’indifferenza. Ogni tanto il semaforo diventa un luogo d’incontro. Tra piazza Loreto e via Nicola Serra si consumano le giornate di Mustafà, 19 anni, marocchino. Il suo mestiere è il lavavetri e parla benissimo il dialetto cosentino. «Sono arrivato a Cosenza otto anni fa con mio padre – sussurra Mustafà – ho frequentato per due anni la scuola a Luzzi, ma poi sono rimasto solo e sono venuto a Cosenza. Come tanti altri, mando un po’ di soldi in Marocco per aiutare la mia famiglia. Lavoro al semaforo da tre anni. Si guadagna pochissimo, circa 30mila al giorno. A volte mi ritrovo in tasca appena 10mila lire. Quanto basta per mangiare». Mustafà guarda malinconico il semaforo ed aggiunge: «C’è gente che mi prende a parolacce e mi urla di tornare al mio Paese. Per fortuna esistono pure persone umane». Il ragazzo alza lo sguardo verso un edificio situato nei pressi del semaforo: «Per esempio, gli abitanti di questo palazzo. Spesso mi chiamano dai balconi per darmi da mangiare: ormai mi vogliono bene». Mustafà è regolarmente munito del permesso di soggiorno, ma deve lottare per sopravvivere: «Dormo nell’Oasi francescana. Quando arrivo tardi e trovo la porta chiusa, vado ad accamparmi al “Gramna”. Per diversi mesi ho passato le notti in una macchina abbandonata. Spesso mangio alla mensa dei poveri. Qualche giorno fa ho avuto un’infiammazione alla bocca e mi ha curato il dentista dell’ambulatorio di padre Fedele». A Cosenza nove aziende su dieci assumono persone “a nero”, senza dare garanzie e versare i contributi previsti dalla legge. Gli immigrati sono le vittime più indifese di questo fenomeno. Mustafà lo conferma:« Mi è capitato di fare il muratore e il lavapiatti. Il mese scorso ho lavorato per dieci giornate in campagna. Mi hanno dato 50mila lire, cioè 5mila lire al giorno. Quando ho protestato, mi hanno preso a botte». Gli occhi intelligenti di Mustafà diventano lucidi, mentre racconta la sua storia: «Ho girato l’Italia. Sono stato a Torino e Milano. Ho tentato di vivere in Francia, ma la gente migliore l’ho trovata qui». In Calabria vivono 16.874 migranti. Sono uomini e donne che attraversano le frontiere alla ricerca di una condizione migliore. A Cosenza, nella ormai centrale via Popilia, staziona spesso un pullman carico di polacchi. Sono venditori di cianfrusaglie, che hanno trasformato il loro mezzo di trasporto in una casa. Si spostano continuamente, a bordo di un condominio a quattro ruote, esportando orologi e macchine fotografiche. Sono i nomadi del terzo millennio, ben diversi dai calabresi emigrati nel ventesimo secolo. I marocchini presenti in regione sono circa seimila. Tanti vivono a Cosenza. Qualcuno abita nel centro storico e paga fino a 300mila lire di affitto. «Un mio connazionale dormiva in un appartamento a “Santa Lucia” – dichiara Mustafà – ma tre anni fa la casa è stata dichiarata pericolante e lo hanno trasferito in albergo, a spese del comune. Oggi l’abitazione è stata ristrutturata e l’amministrazione non è più disposta a mantenere in pensione la famiglia senza alloggio. Il mio amico non può rientrare nella vecchia casa, perché il proprietario ha aumentato l’affitto, ma non può nemmeno chiedere il contributo comunale, perché il suo permesso di soggiorno sta scadendo. Tanti immigrati si trovano in queste condizioni. E non è vero che i marocchini sono spacciatori. Secondo te, uno che vende eroina può stare tutto il giorno ad un semaforo?» Le ultime parole del giovane lavavetri sono dedicate ai permessi di soggiorno: «Sono stato regolarizzato otto anni fa, perché sono entrato con mio padre, ma presto dovrò dimostrare di avere un lavoro per restare in Italia». Il futuro di Mustafà dipende dalla nuova legge sull’immigrazione. I clandestini saranno fermati e trattenuti nei “centri di detenzione provvisoria”, prima di essere espulsi. Se Mustafà non riuscirà ad entrare nel mercato del lavoro, sarà catapultato nella terra dei senza terra. E forse di lui non sentiremo più parlare.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 24 marzo 1998

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