Zia Maria esponeva ogni anno la coperta rossa dal balcone: “Madunneddra mia, guardani tu du’ terremutu e da’ malatia”. Al passaggio del sacro corteo s’inginocchiava. Il 12 febbraio scorso, quando ci ha visto arrivare nella piazza della chìesa matre, l’ispettore della Digos s’è un po’ preoccupato: “Come mai qui? Non sapevo che siete cattolici”. Il poliziotto era stupefatto davvero. Sotto sotto forse sospettava che volessimo montare uno dei nostri soliti casini o magari srotolare qualche striscione. Poi s’è reso conto che non avevamo intenzioni riottose. Da qualche anno, sebbene molti di noi non siano credenti, abbiamo preso l’abitudine di andare in processione il 12 febbraio dietro alla statua della Madonna del Pilerio. E lo facciamo con grande rispetto. Per qualcuno di noi è pura devozione, per altri un modo di vivere un momento mistico di comunanza, insieme ai nostri concittadini, quelli più umili e silenziosi.
Dodici febbraio: 12.2. Dodici per due fa 24. Lunedì scorso, il 24 febbraio, quando a Cosenza la terra ha tremato, mi trovavo in compagnia di un fraterno amico che non avrebbe paura nemmeno del demonio. In quei pochi estenuanti secondi l’ho visto impallidire. Il terremoto ha provocato un terrore più ancestrale di quello ereditato dal tempo della pestilenza. Così tutti siamo stati costretti ad avvicinarci l’uno all’altro, incuranti delle raccomandazioni di rimanere distanti per evitare il contagio da coronavirus. E siamo dovuti scendere in strada, contravvenendo all’indicazione di stare il più possibile a casa. A un certo punto non sapevamo più dove andare. Allora abbiamo avuto l’impressione di rimbalzare sulle nostre paure, come sballottati tra gli scogli, la risacca e le onde di tempesta. M’è venuta in mente mia madre: durante la guerra, da bambina, lei e gli altri dovevano sfuggire ai bombardamenti. In casa non potevano restare. Rischiavano di essere disintegrati dalle bombe, ma nemmeno all’aperto potevano fermarsi, perché correvano un rischio peggiore. Allora s’infilavano nei rifugi e lì dovevano condividere i disagi, gli odori, le malattie, vivendo come topi. Nella spaziosa piazza Fera, dove in passato ci rifugiavamo in caso di terremoto, lunedì scorso non è voluto andare nessuno. Regna la maliziosa convinzione che il mega-parcheggio crollerebbe pure in assenza di eventi sismici. A Cosenza si fa presto a concordare su certi temi: “Scossa forte, danni pochi, ci ha salvato la Madonna del Pilerio. E lo stesso accadrà per il coronavirus”.
Il totovirus impazza in queste ore: “Arriverà o no in Calabria?” Dilagano l’umorismo nero e le scemenze: “Non viene perché ha paura della ‘ndrangheta”. E ancora: “Per sopravvivere, il virus ha bisogno di mantenere in vita l’ospite, cioè il corpo del malato, come l’Alien del celebre film, che si annida nei corpi sventurati di incauti astro-turisti. In Calabria non verrà perché la nostra sanità è già al collasso. Se entra in un ospedale qualsiasi, non ha speranza. Morirà la persona che l’ospita, e il virus con lei”.
Una cosa è certa: per la prima volta, dal tempo della guerra, questa epidemia ha stravolto le nostre abitudini in modo repentino. Per quelli convinti che nel mondo occidentale tutto torna, è un’autentica mazzata. Ci illudiamo che ci sia sempre un numero verde da chiamare, una medicina efficace per ogni malattia. Non è così. E quando ce ne accorgiamo, siamo posseduti dall’irrazionalità. Avevamo già conosciuto l’accaparramento, quando le masse si precipitarono a svuotare i supermercati, mentre scoppiava la guerra del Golfo, nel gennaio 1991. Adesso invece stiamo vivendo in un macabro reality di cui siamo noi i protagonisti, segregati in casa e raccontati da telecamere esterne. I sovranisti stanno toccando con mano che la chiusura delle frontiere comporta fame e carestia. E i neoliberisti hanno capito quanto fallace e precario sia un sistema basato sul primato della ricchezza: per mandare all’aria tutto, basta un elemento naturale che per molti scienziati non merita neanche il titolo di organismo vivente. Tale è il coronavirus che sembra voler capovolgere tutte le nostre convinzioni. Quando mai s’era vista una calamità che si abbatte prima sul nord e poi (speriamo di no) scende a sud? E qual è la logica nel chiudere le scuole e bloccare le attività in alcune regioni, ma non in altre? Il virus non ha studiato la geografia amministrativa del Paese. Se viaggia da una parte, perché mai non dovrebbe penetrare in un’altra?
Cinico comunque è chi ridacchia vedendo Salvini e i suoi conterranei daspati a distanza dai confini della Romania. Anzitutto, c’è poco da ridere quando la gente soffre o muore. E poi questa tragedia insegna che Bergamaschi, Cinesi, Calabresi o Veneti – insomma reietti – si diventa, non si nasce. Pur mantenendo le proprie radici, non sono forse divenuti Italiani del nord i nostri amici e parenti emigrati per studio, lavoro o salute, che in questi giorni stanno rientrando a casa? Colpiti come siamo da ordinanze, raccomandazioni, indicazioni e consigli medici, davvero nessuno di noi ha provato un pizzico di timore nel riabbracciare i propri cari giunti alla stazione dei pullman?
Cinico è anche chi, pur di trasmettere tranquillità e combattere la psicosi collettiva, si ostina a dire: “Non c’è niente da temere. Il coronavirus uccide poco. Le vittime sono soltanto anziani e persone affette da altre patologie”. Ma che schifo di ragionamento sarebbe questo? Gli anziani e i già malati possono morire senza tanti patemi? Perché? Hanno forse qualche motivo in meno per potere e dover vivere? Sarei qualcosa di ben più grave d’un semplice imbecille se per provare a tranquillizzare mia figlia scegliessi un simile argomento: “Stai calma, non c’è niente da temere. Male che va, muoiono i tuoi nonni e qualche amichetto che era già malato prima del coronavirus”.
Poi comunque alcuni scienziati dicono che questa epidemia sia meno letale dell’influenza che ci attacca ogni anno. Ed è altrettanto realistico che in assenza del vaccino, il morbillo mieterebbe più vittime del coronavirus. Qualche sprovveduto lo paragona alla peste nera. L’accostamento non sta in piedi: nel XIV secolo la peste uccise più di un Europeo su tre. Al confronto, il Covid19 è meno grave di un raffreddore. Ci sono però elementi di parziale verità nell’acrobatico parallelismo, riguardano le cause e gli effetti storici dei due fenomeni, non le patologie nella loro aggressività. Nel ‘300 come oggi, è il dinamismo commerciale la principale causa di propagazione del contagio. Per effetto di questa epidemia, come per le antiche pandemie, i ricchi si arricchiranno e i poveri, o comunque i non ricchi, cadranno in ulteriore disgrazia. Non è verosimile che questa creatura sia stata prodotta ad arte in qualche laboratorio, però, fuori da qualsiasi complottismo, come accadde con la peste nera, è indubbio che il capitalismo ne ricaverà profitti inimmaginabili. Lo sta già facendo. Per i positivisti, i sostenitori del tutto torna, riesce difficile accettare che la speculazione sia fisiologica e legale: aumentando la domanda di un prodotto, aumentano i prezzi. Ecco perché le mascherine e i disinfettanti costano tanto, al di là degli immancabili episodi di mercato nero. L’aumento sproporzionato dei prezzi fa parte del sistema, che è naturalmente sciacallo e criminale. Così, quando l’incubo finirà, saranno rinegoziati i salari, la proprietà tornerà a concentrarsi, il denaro riprenderà a essere più fluido di prima, spread e Borse dreneranno miliardi nelle tasche degli speculatori transnazionali. Il sentimento di scampato pericolo alimenterà una nuova corsa ai beni voluttuari. La crisi da Coronavirus lascerà il posto a inedite forme di accumulazione. Gli equilibri si ristabiliranno a vantaggio dei potenti. Ricorderemo con virale e cinico sollievo queste giornate di insostenibile pesantezza della psicosi.
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