I decenni di Marco Philopat

“Ho imparato a scrivere incontrando Primo Moroni, proprio mentre insieme a Nanni Balestrini stanno scrivendo “L’Orda d’Oro”.
Io da punk non riuscivo ad andare a tempo e quindi ero cacciato via da tutti i gruppi musicali che tentavo di formare. Fondavo una band, ma poi scoprivo che questi qui sapevano suonare abbastanza bene, nonostante il punk non richiedesse né una grande tecnica concertistica, né la necessità di studiare gli spartiti. Chitarristi e batteristi mi dicevano: Philopat vai fuori tempo. Non è per te”.
A parlare è Marco Philopat, autore di un’interessante trilogia di romanzi sui movimenti sociali e le culture sotterranee in Italia, pubblicati dalle edizioni Shake. Con “Costretti a sanguinare (del 1997) ha raccontato gli anni ottanta, i primi centro sociali autogestiti e i punk italiani. Nel 2002 ha pubblicato “La banda Bellini”, su una banda di quartiere milanese che si trasforma in un temuto servizio d’ordine, nella Milano degli anni settanta. Da pochi mesi è uscito “I viaggi di Mel”, sul movimento beat italiano degli anni sessanta.
E così, grazie a Primo Moroni, ti sei buttato nella scrittura…
Incomincio a scrivere perché anche le fanzine sono un mezzo di espressione del punk. Alla fine degli anni settanta, nascono i primi negozi di fotocopie e quindi risulta facile diventare redattore, distributore e anche scrittore. Uno degli slogan del punk è “Fai da te, do it youself”. Inizio a fare sperimentazioni letterarie a sedici, diciassette anni, grazie proprio al punk. Mi ci appassiono, fino a fondare la nostra prima casa editrice all’interno del “Virus”, che si chiama “Antiutopie edizioni”. Facciamo riviste, che poi piano piano cominceremo a stampare in tipografia, raggiungendo anche le duemila copie.
Quanto è stato importante Primo Moroni nella tua formazione?
Quando sgomberano il “Virus” nel 1984, conosco Primo Moroni. Capisco che c’è la possibilità di imparare ad intrecciare il racconto orale con la narrativa. Seguo per quasi tre anni Primo, tra la sua libreria e le tante conferenze che fa con il titolo “Liberiamo gli anni settanta”. Liberiamoli, cioè, dal baule di piombo, il metallo più pesante che impediva il ragionamento e lo studio reale della storiografia, cosa che l’Orda d’Oro aveva fatto anche partendo dai discorsi orali di Primo stesso.
Qual è la tua prima esperienza con il racconto orale?
Ho pensato di fare un libro autoregistrandomi. Così nasce “Costretti a sanguinare” sulla storia del punk che avevo vissuto sin dall’inizio, appunto nel “Virus” che è uno dei primi centri sociali come li conosciamo oggi. Lo scrivo ripescando anche gli insegnamenti di Nanni e Primo, recuperando quello che avevo imparato dalle fanzine, tentando di affinare una tecnica sperimentata con i primi computer. Quelle iniziali mailing list sono una sorta di palestra d’allenamento.Tra l’85 e l’86 esce fuori una rivista: “Decoder”. Sarà il nucleo fondativo dell’Helter Skelter e della Shake, che ancora oggi pubblica i miei libri.
A cosa attribuisci il successo di “Costretti a Sanguinare”?
Esce nel ’97 in 1500 copie e piace soprattutto alla critica, misteriosamente. Sono chiamato in diversi centri sociali, in un sacco di posti, a presentare questa vicenda che nessuno conosceva. Il “Virus” è uno dei luoghi più importanti nella storia del punk nel mondo. Nel frattempo muore Primo Moroni. Per noi è lacerante, anche perché era stato uno che aveva costituito la base teorica ed amicale della nostra cooperativa. C’è la necessità di continuare tutto il lavoro che stava facendo, proprio a partire dalla questione degli anni settanta. In Calusca avevo conosciuto diverse persone che provenivano da quel movimento. Mi avevano appassionato. Decido così di raccontarli in una maniera particolare. La vicenda che scelgo, aveva incendiato gli animi dell’immaginario dei ragazzi di allora. Ho pensato di telefonare ad Andrea Bellini, che dal ’72 al ’75 era uno dei leader di una banda di ragazzi di strada che veniva dal Casoretto, quartiere popolare d’antica tradizione riottosa di Milano. La sua banda riuscì ad essere veramente autonoma, indomabile da qualsiasi tentativo di inquadramento di altri servizi d’ordine più stalinisti, come nel caso del movimento studentesco della Statale, ma anche di Lotta Continua e di Avanguardia Operaia. Riuscirono per una serie di motivi, primo fra tutti il fatto di essere amici, a diventare un servizio d’ordine invincibile ed a sbaragliare eserciti di carabinieri e di polizia.
Perché proprio Bellini?
È una persona che è bellissimo ascoltare. Ha una capacità incredibile di descrivere quegli anni. Li racconta come fossero una grande avventura, quasi somigliante ad un film. Infatti proprio a “Il mucchio Selvaggio” è dedicata la copertina. Al libro ho lavorato circa quattro anni, registrando il racconto orale di Andrea, incrociandolo con tutti i lavori che erano già usciti. Quindi c’è una ricerca storiografica mescolata alla narrazione.
Come è nato il terzo flashback?
Nel 1996 incontro Melchiorre Gerbino, il protagonista di questo mio ultimo libro “I viaggi di Mel”. Lo conosco da tempo, perché sulla nostra rivista Decoder alla metà degli anni ottanta avevamo fatto delle ricerche su quello che c’era alle spalle dell’esperienza dalla quale noi della Shake provenivamo: il punk, i ragazzi del ’77, gli indiani metropolitani, gli hippy. Insomma, la storia delle controculture. Avevamo già stampato “Taz” di Hakim Bey, che poneva le basi per una convergenza dell’ala più politica del movimento con quella controculturale. Si decide di raccontare la storia della prima rivista underground uscita in Italia: “Mondo Beat”. Quindi andiamo a cercare i vecchi militanti. Li intervistiamo. Raccontano di un ragazzo siciliano, Melchiorre Gerbino, che era il direttore della rivista. Un personaggio molto particolare, contraddittorio, ma nello stesso tempo pioniere di un mondo nuovo. Le pagine di “Mondo Beat” ancora oggi appaiono sperimentali nel linguaggio e moderne nell’impostazione grafica, ma furono soprattutto le provocatorie tematiche, una delle quali era legata alla sessualità e all’amore libero, a far gridare allo scandalo l’intera nazione. Alla fine di quell’esperienza Melchiorre, detto Mel, il dinamitardo della natura umana, inizia a viaggiare per il mondo scegliendo la filosofia beat come perenne stile di vita, facendosi inesorabilmente travolgere da una società profondamente mutata. Così… il capellone perse tutti i capelli…
E l’incontro con “Mel”?
Una volta accendo la Tv e scopro che Gerbino è presente in una trasmissione di Maurizio Costanzo. Rimango attonito. So chi sia, ma lui continua a parlare solo di viaggi. Tempo dopo, nel ’96, durante una festa nel centro sociale “Conchetta” dove la Calusca si era trasferita dal ’93, ad un certo punto viene a trovarmi un amico e mi dice: “Di là c’è il pelatone del Maurizio Costanzo Show”. E lì decido di fare una lavoro su di lui… Mel è un vero e proprio affabulatore, un affascinante cantastorie che si esprime in una maniera molto fisica. In decine e decine di sedute mi racconterà la sua vita che ne vale almeno altre due.
Claudio Dionesalvi
CARTA settimanale, n° 11 marzo 2005

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