Sensibili alle Foglie, coraggioso esperimento di casa editrice cooperativa e insieme laboratorio osservazionale sul campo, aveva regalato ai lettori negli anni anche importanti collane saggistiche non convenzionali che, però, dietro il prisma di un antagonismo mai negato, conservavano tuttavia una qualità d’analisi non certo inferiore alle altre proposte dell’industria editoriale. Visione di parte, certo, ma in una ricerca di senso che scarta la parte e che il tutto sa guardare. Oggi, ci offre l’ultima fatica di Claudio Dionesalvi, ispirata dalle vicende di un ex detenuto cosentino, Francesco Pezzulli, “L’evaso. Partita a bocce con la libertà”. La storia ha inevitabilmente il fascino della casualità e dell’incoscienza, giacché prende le mosse da una fuga maturata all’interno di un’aula bunker e perpetrata senza le ombre e gli agganci e i faccendieri di tanti altri maxi-processi: una fuga semplice, una fuga umana, una fuga parimenti composta di sbagli e di destrezze, di slanci, di azzardi e di ripensamenti.
Fuga brevissima, come tutte le latitanze che non hanno l’ospitalità di un potere o di sue schegge, eppure densa, perché quei dodici giorni di rabbioso esilio dalla spersonalizzazione del procedimento, delle condanne e delle segregazioni, sono dodici giorni di ritmiche incalzanti, di decisioni da prendere e di attimi da sprecare: il lusso di un tempo che non è più dentro un’istituzione, ma che si lascia guardare da chi è costretto a viverlo. Seguendo quasi meglio che in un diario la vicenda del Pezzulli, assistiamo a un’ampia retrospettiva di pensieri che non indulgono mai all’autocommiserazione, alla diserzione calcolatrice rispetto all’esistente, alla travisata e tentata agiografia personalistica che pubblicazioni di argomento simile e di ben più modesto risultato artistico e cronachistico hanno invece abbondantemente abusato nella storia italiana.
Spaccato, quindi, di un viaggio nella coscienza di chi guarda il proprio passato dallo specchio di una fuga, dall’elettrocardiogramma accelerato del rischio, della rovina, dei rimpianti e anche delle scelte che meritano di restare in piedi soprattutto quando l’errore è un esercizio di responsabilità.
I dodici giorni dello Smilzo – questo l’opportuno nick del protagonista – non sono solo un’epopea personale, con le sue ascese e le sue cadute, ma anche angolature preziose attraverso cui rileggere la realtà di una città e di una provincia, transitata quasi a occhi chiusi dall’ovatta tradizionale dei suoi troppi passati alla cupidigia e alla vandalizzazione dei suoi non pervenuti futuri. Il seme dell’odio che contamina le mentalità, ancor prima forse che le menti. La storia e la riflessività di Pezzulli, senza inganno e senza sconto, senza il lieto fine giustificante dall’assoluzione e senza la tracotanza di una condanna che per molti diventa fregio e rivalsa, fanno il paio con la penna del Dionesalvi, fresca e colloquiale come non mai e qui alle prese con una sintesi di sequenze così asciutta e ben cadenzata da suonare come un concerto dub di musica dal vivo, all’ombra delle umide confluenze cosentine, più che al Sole tostante e tostato della vecchia Giamaica.
Una rivista tedesca di italianistica scrisse, a proposito di una sua precedente opera, che “Mammagialla” dovesse essere considerato il miglior romanzo italiano dell’ultimo trentennio. Dionesalvi, ancora una volta e a sorpresa, a tutt’altro pensando e tutt’altro facendo, riesce ad alzare l’asticella, cucendo linguaggi e portando alla luce tutte le ferite che precedono e nutrono le storie. Se gli studiosi leggono ancora la qualità della scrittura, “L’evaso” dovrà allungare di qualche rigo i paragrafi delle antologie scolastiche.
Domenico Bilotti
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