Riecco il 2001

“Giro giro tondo, casca il mondo”. Il computer che torna bambino e recita un affabulante ritornello infantile. In punto di morte, il cervellone elettronico Hal 9000 chiede pietà all’astronauta David Bowman. È solo uno degli infiniti paradossi di “2001: Odissea nello spazio”. Un film che pone l’idea ciclica del tempo in uno spazio infinito.
Alla vigilia dell’anno prescelto per la missione, si avverte il bisogno di fermarsi e meditare. E mi perdonino i cinefili e i mangiatori di pellicole. “2001…” non è materia per i cervelli malati di saccenteria, sempre impegnati ad immagazzinare cognomi e scene da sciorinare al primo dibattitino. “2001…” non è UN film. È IL film. Ed è giusto che ne parlino tutti. Noi comuni mortali ignoranti, i cosiddetti folli, le monache di clausura, i bambini, i ciechi…tutti, tranne i critici e gli addetti ai lavori, che nel lontano ‘68 accolsero l’opera aggrappandosi alle anguste categorie del “Superuomo” e del non senso.
Sì, è vero, ci fu anche, per fortuna, chi tentò sulle pagine di “Cinema” un approccio più eretico.
Ma sull’eredità di Kubrick e sulle sue profezie rimangono tante, troppe, finestre aperte.
La critica si affanna oggi a discutere sul significato metafisico dell’ultima frase di Eyes wide shut: “L’unica cosa che ci resta da fare è scopare”. I cattedratici si chiedono: è stato Kubrick a concepire quel finale oppure qualcuno lo ha stravolto per motivi commerciali dopo la sua morte? Ma è mai possibile – insistono – che il Maestro abbia voluto congedarsi con un testamento così intellettualmente basso? Eppure Kubrick, in realtà, non terminava mai i suoi film. Quando fu presentato al pubblico, a New York, il primo aprile 1968, “2001” durava 161 minuti. La versione che oggi conosciamo si ferma al centoquarantunesimo. Venti minuti in meno, tagliati da un autore che inseguiva la perfezionale in modo ossessivo.
Ma tutto questo non conta. Abbiamo sufficiente libertà. Possiamo tranquillamente pensare a quanto di quel film oggi è vivo in mezzo a noi. E viene la pelle d’oca quando ne rileviamo l’attualità. È sempre più frequente, per esempio, imbattersi nelle dichiarazioni di scienziati che ipotizzano pianeti abitabili, organismi viventi che si riproducono da sé, e computer che somigliano agli uomini.
Come in “2001”, che pur non avendo un intreccio, esplodeva con infinite trame, spesso maledettamente realistiche.
Insomma, la possibilità che abbiamo di ritrovarcelo davanti in ogni momento della giornata, è un fatto concreto, la conferma che sfuggiva alla categoria del fantascientifico. E non solo perché il soggetto kubrickiano stravolge il racconto The Sentinel del grande Clarke, al quale si ispira. Ma perché Kubrick, come Omero, Dante e Shakespeare, non è un corpo estraneo all’arte.
Semplicemente ne fa parte. Poco rimane, dunque, da scrivere su quei 141 minuti di pellicola. Forse, l’atteggiamento più corretto è il silenzio. Un lasciarsi trasportare. Un risentirsi assorbiti da un’infanzia mitica.  Il cinema e la poesia sono morti. Trucidati dal ‘900. A noi non resta altro da fare che uno sconnesso girotondo intorno allo Spettacolo. Come quelle scimmie… che interrogavano il monolito.
Claudio Dionesalvi (Freme)
Teatro Rendano, novembre-dicembre 2000

No Comments Yet.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *