I primi giorni di scuola sono i più difficili. Con la massima leggerezza possibile, devi trasmettere ai ragazzi e alle ragazze l’importanza di studiare e stare bene insieme tra i banchi. Cercando di non essere pesante, hai il dovere di richiamare la loro attenzione sulla necessità di scrivere, leggere, ragionare, capire il mondo. Il compito è meno arduo per quelli come me, fortunati d’insegnare in una scuola che non ci tratta come tanti ragionier Filini pur di vendere meglio il prodotto.
Eppure rientrando in classe, quest’anno sto avvertendo un malessere, come se stia dimenticando qualcosa, ma ancora non riesco a capire cosa. Intanto predispongo la cassetta degli attrezzi per questa prima settimana: gli indovinelli, i cartoncini ondulati per mostrare alla classe quanto illusoria sia la nostra percezione delle apparenze, lo scarabeo Durito che cammina a energia solare. Più che strumenti didattici, giochi di prestigio! Il pezzo forte è la cacchina in cartapesta modellata qualche anno fa da Salvatore, uno dei miei alunni. La custodisco con cura. La deposito a pochi centimetri dal banco di uno dei ragazzi, appena esce dall’aula per andare al bagno. È una vecchia gag. Quando rientra in classe, scusandomi gli dico che m’è scappata mentre spiegavo. Nella cassetta degli attrezzi infilo pure tre etti abbondanti di rosamarina piccante. Serve a sanzionare quei ragazzi di terza media, che l’anno scorso studiavano poco oppure hanno commesso qualche monelleria di troppo. È un complice e concordato rito purificatorio. Senza costringerli, gliene faccio mangiare in quantità, accompagnandola con dell’ottimo pane. Naturalmente la mangio insieme a loro. Finisce sempre che pure tutti gli altri, quelli non sanzionati, ne divorano quantità industriali. Calabresi DOC, hanno il palato abituato al peperoncino. Se lavorassi in una scuola del nord e inserissi nella mia programmazione didattica questo tipo di competenza, come minimo mi arresterebbero.
Mentre giochicchio con gli alunni, ritorna quel senso di malessere. Mi tormenta. Diviene emicrania. Lo somatizzo. Mi distraggo annunciando alla classe la mia novità in termini di valutazione. Quest’anno loro e io adotteremo il VAR, Video Assistant Referee. Ogni volta che li scoprirò impreparati, estrarrò il cartellino giallo che dovranno consegnare ai rispettivi genitori e riportarmelo firmato, il giorno dopo. Alla seconda impreparazione, scatterà il rosso. A quel punto, in accordo con suo figlio, il genitore potrà invocare il VAR, cioè l’interrogazione filmata mediante quei maledetti smartphone che i ragazzi si portano dietro. Sempre però a patto che il video non finisca sui social network! Così almeno quelle macchinette malefiche serviranno a qualcosa, i genitori saranno informati in tempo reale sull’andamento didattico, e gli alunni convertiranno le impreparazioni in attive e giocose verifiche. Cartellini gialli e rossi, mai accostati l’uno all’altro, saranno utili dalla prossima settimana, quando permarrà sempre l’approccio ludico da insegnante clown, ma inizierò a spiegare grammatica, storia, geografia e letteratura.
Sì, eppure non mi sento ancora soddisfatto. Quella sensazione d’aver trascurato uno dei miei doveri, mi ghermisce, non mi dà tregua. Ma all’improvviso un lampo, un’illuminazione. Ecco cos’era quel malessere, quel senso di colpa! Quest’anno non ho ancora riletto la bibbia della scuola-azienda, il documento che se non lo conosci e non impieghi intere giornate per prepararlo, non sei nessuno, non puoi fare l’insegnante. Ebbene sì, ho dimenticato di meditare sul PTOF, il Piano Triennale dell’Offerta Formativa. E non sono neanche andato a ristudiare il curricolo verticale! Mannaggia. E mo chi glielo dice ai ragazzi?!
Claudio Dionesalvi
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