Le antiche leggende appaiono come notizie “giornalistiche” fossilizzate. Imprigionate nella tradizione orale dei popoli, custodiscono piccole verità e gigantesche bugie, rotolando sul sentiero del tempo. Per i cosentini, la ricerca del tesoro di Alarico rappresenta una scommessa. È come giocare al superenalotto. Con poche lire si può sognare di conquistare una fortuna. Dalla roccia avara di una terra che non ha mai prodotto ricchezza, si vorrebbe ricavare il segreto per cancellare secoli di povertà. Il comunicato stampa diramato dall’amministrazione comunale pochi giorni fa, ha provocato un effetto prevedibile. Desta scalpore ed entusiasmo il fatto che qualcuno sia nuovamente disponibile ad investire in un’impresa così ardua. Un mistero che continuerà a tormentare il sonno degli storiografi.
A Mendicino, dove due fratelli dal cognome carico di significato – Bosco – hanno individuato la presunta sepoltura del Re dei Visigoti, potrebbero riposare le ossa di un uomo che guidò il saccheggio di Roma. Al fascino della lotta per strappare un segreto alla storia, si unisce la speranza di ritrovare i tesori rubati ai romani, custoditi, secondo la leggenda, nel sepolcro di Alarico. Scavando nel mito del guerriero imbattibile, è possibile recuperare le tracce materiali di una vicenda umana reale e concreta. Alarico era anzitutto un condottiero, stroncato nei pressi di Cosenza, nel 410 Dopo Cristo, dalla malaria o da una freccia di un bruzio romanizzato. Gli archeologi hanno tentato, in diverse circostanze, di restituire un fondamento storico alla leggenda.
Le spedizioni più significative risalgono all’età neoclassica, e più precisamente al 1744. In quel periodo, gli studiosi erano intenti a rovistare nella lava solidificata di Pompei, ansiosi di riscoprire i fasti di una civiltà aulica e proiettata verso i grandi valori dell’umanità. Sulle mura, invece, trovarono molti simboli fallici e segni inequivocabili di una società tendente al vizio.
A Cosenza rimasero con un pugno di mosche in mano. Così come uscirono sconfitti gli archeologi che tornarono alla carica nel 1860 e nella prima metà del ‘900. L’applicazione rigida delle indicazioni leggendarie ha sempre depistato gli esperti. Se, infatti, i Visigoti avessero seppellito il loro Re alla confluenza dei fiumi Crati e Busento, avrebbero dovuto uccidere tutti i cosentini, perché sarebbe stato impossibile impedire ai tantissimi testimoni, abitanti sul colle Pancrazio, di osservare la scena. La caccia al tesoro ha vissuto fasi alterne. L’ipotesi della grotta di Mendicino ha almeno due precedenti rilevanti. Il primo è relativo ad un tumulo che sorge nei pressi di Domanico, vicino al torrente “Piedimonte”, affluente del Busento. Il secondo sito è localizzato a Bisignano, in contrada Grifone, a pochi chilometri dall’autostrada Salerno-Reggio Calabria. In quella zona esiste una piccola altura artificiale, che ha insospettito gli studiosi. In entrambi i casi sono state effettuate ricerche, ma gli scavi non hanno portato ad alcun rinvenimento. Un’ultima ipotesi scientifica appartiene a Luigi Tancredi che individuò un’ubicazione remota per la tomba di Alarico: 200 chilometri a nord di Cosenza, nel golfo di Policastro, dove sfocia il Bussento, un fiume diverso dal nostro Busento.
Gli scavi di Mendicino si inseriranno nel percorso di una ricerca che va avanti da secoli. Per uno scherzo del destino, quasi certamente il carattere poco attendibile di questa nuova ipotesi, risalente a circa dieci anni fa, è dato proprio da un elemento che ha stimolato l’intervento degli studiosi: la croce posta nei pressi delle grotte. I Visigoti erano un popolo poco incline a farsi crocifiggere e dovevano avere enorme diffidenza verso quel simbolo che era stato causa di tante sciagure per i romani. Tuttavia, per i cosentini la riapertura di una finestra ideale sul passato rimane un fatto positivo, perché pone la coscienza popolare in un continuo rapporto con il fluire della storia. E soprattutto dimostra che il tempo non contribuisce a migliorare, né a peggiorare, i caratteri dell’umanità. Quanti “Alarico” esistono nelle strade d’Europa?
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 15 luglio 1999
(disegno di Simone Borselli)
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