Una Sila nera nel cuore dell’Africa. Di tutte le creature urbane attraversate sinora, Iringa è la più affascinante e vivibile. In giugno la stagione fredda inizia ad accarezzarla. I suoi 1600 metri di altitudine si sentono tutti. Noi però abbiamo la temperatura alta perché il container non è ancora arrivato. Uscito dalla sabbia di Morogoro, pare che il camion sia bloccato di nuovo per un guasto al motore, a metà della strada che deve percorrere per raggiungerci. Per sciogliere la tensione, giovedì visitiamo il vicino sito archeologico di Isimila. L’attiguo museo custodisce tracce delle nostre radici remote. Da queste parti, centinaia di migliaia d’anni fa, per effetto dei cambiamenti climatici, animali dell’ordine dei primati si evolsero e approdarono al genere Homo da cui discendiamo noi, cosiddetti sapiens sapiens. In quest’area, nel XIX secolo Iringa è stata fondata dal colonialismo tedesco impegnato a sedare la rivolta del capo Mkwawa. La città deve il suo nome alla parola tribale che significa “luogo forte”. A Isimila si elevano altissime colonne di arenaria, erose dall’acqua e dal vento, sormontate da rocce più resistenti, di origine vulcanica.
Alcuni di noi rimangono nel Dalla Dalla, attaccati ai telefonini che inseguono la Caritas, l’autista, l’ambasciata. Gli amici della cooperazione internazionale ci stanno dando una mano. Bisogna riuscire a portare il container a Iringa.
Venerdì mattina siamo accolti dai responsabili della ONG “Call Africa” che ha realizzato e gestisce sette centri dislocati per la riabilitazione comunitaria delle persone disabili, facenti capo a un’unica struttura: “Sambamba”. È un termine che tradotto alla lettera vuol dire “fianco a fianco”.
Vi è impiegato personale locale, altamente specializzato, formato in loco proprio per alimentare la qualità della cooperazione e ridurre la dipendenza dai progetti avviati da Paesi europei nell’erogazione dei servizi delicati. A capo c’è un’italiana radicatasi in questo lembo d’Africa, Alessia La Rosa. Terapisti occupazionali si occupano dei bambini con problemi neurofisiologici. Nella casa base Kipekeo, “Farfalla”, si tenta di salvare i bambini con problemi nella nutrizione.
Le famiglie li accompagnano nei centri alle 9,30 e passano a riprenderli alle 16,30. Grazie alla collaborazione con privati e altre associazioni, “La Terra di Piero” dona a “Sambamba” una cyclette elettrica, giochi, medicamenti, materiali didattici e strumentazioni per le terapie riabilitative. A ringraziarci, e soprattutto a illuminarci sul senso di quest’attività, è Paolo Brasili, operatore espatriato di “Call Africa”.
In tarda mattinata visitiamo il cantiere della scuola che sta sorgendo in località Isakalilo. La sta realizzando “Santi Asilia”, una realtà sociale guidata da Onesmo Nzellu, marito di Alessia La Rosa, in partenariato con l’associazione “Terra e popoli”. Quando sarà completata, un’aula della scuola verrà dotata di suppellettili e materiali didattici che abbiamo portato da Cosenza. Stringiamo amicizia con gli operai impegnati nei lavori.
Insieme a loro risaliamo sul Dalla Dalla per trasferirci pochi chilometri più giù, nella sede centrale della scuola. Scendiamo dalla collinetta e strada facendo Piero Lato trova il tempo di riparare una bici anche a migliaia di chilometri dalle Ramblas.
La scuola primaria in costruzione a Isakalilo sarà un plesso distaccato di questa sede centrale, dove lo Mtendagi, presidente del Kataa, cioè la circoscrizione locale, insieme a tutto il corpo scolastico al completo, ci accoglie in segno di ringraziamento.
È una cerimonia intensa. Ciascuno di loro tiene un solenne discorso. Danzatori in costumi tradizionali inscenano Upendo Mgoma Asili: “Voce e musica dell’amore”.
In Tanzania la scuola pubblica primaria dura sette anni, seguita da quattro di secondaria e due di specializzazione facoltativa. Agli insegnanti lo stipendio arriva a intervalli spesso lunghissimi e molto irregolari. Guadagnano 300mila scellini, al cambio circa 140 euro al mese. Per farsi un’idea sui prezzi dei beni primari, un chilogrammo di riso costa quanto uno di farina: 2000 scellini, poco meno di un euro. I beni voluttuari invece sono a disposizione solo di un’esigua minoranza. Il preside spiega che l’istituto di Isakamilo è stato fondato nel gennaio del 1978; molti dei piccoli alunni che lo frequentano, percorrono ogni giorno nove o dieci chilometri a piedi da casa a scuola. Nelle aule affollatissime non c’è corrente elettrica e i servizi igienici sono senz’acqua. “Siete i benvenuti, sebbene veniate dall’Europa”, ci dice una delle donne che hanno appena eseguito le danze tradizionali. Poi a esibirsi sono i bambini. Si muovono con una scioltezza possibile solo a queste latitudini. Intanto nel cerchio che abbiamo formato, passa di mano in mano un registro delle firme. Ciascuno di noi appone la propria, ma come spesso accade in questi casi, sorgono piccoli problemi di identità…
Al termine dell’atto pubblico, ci offrono da mangiare: riso pilau, manzo, piselli e “pollo che sa di pollo”, come fa notare lo chef Cicc’i llà. Terminato il pranzo, siamo sommersi da una cascata di abbracci prima di risalire sul Dalla Dalla. Echeggiano impresse nelle mente le voci festanti dei piccoli scolari. In Tanzania, quando in una famiglia nascono dei bambini, gli amici e i parenti sono portati a modificare i nomi dei novelli genitori, associandoli a quelli dei figli. È un’usanza impregnata di tenerezza. M’immagino soprannominato “PapaMaya” in virtù del nome di mia figlia.
Il pullmino taglia un paesaggio brulicante di donne in kanga, la coloratissima gonna lunga che tutte indossano. Recano sulla testa secchi pieni d’acqua; dai loro marsupi kitenghe indossati a tracolla sbucano gambette di bimbi infagottati, e con entrambe le mani trasportano sacchi e fagotti. Soltanto una muscolatura statuaria e un telaio osseo solidissimo, abituati da sempre a sorreggere il mondo intero, potrebbero sopportare cotanto peso.
Tra un collegamento telefonico e l’altro col bollettino container, nel pullmino giunge notizia che a Dar es Salaam, nelle zone in cui pochi giorni fa abbiamo soggiornato, la popolazione è in allarme perché sarebbe stato avvistato un leone allontanatosi da un vicino parco naturale. Alcune sere fa, il grosso felino avrebbe ruggito nella notte, nei pressi di un alberghetto, mettendo in fuga i turisti. Ci guardiamo negli occhi: percepiamo tutto il peso del guaio che abbiamo combinato. Siamo qui per portare aiuti, non per seminare il panico. Avvertiamo il dovere di frenare l’ondata di terrore, essendone involontari responsabili. Sarà sufficiente una telefonata alle autorità competenti, un’autodenuncia. Noi lo sentiamo ogni notte, dunque siamo abituati. Ma i tanzaniani possono avere idea della potenza innaturale di un Piero Lato che russa?
In serata, ceniamo nel ristorante italiano, nel chiostro fiorito della signora Concetta. All’uscita, non essendo disturbati dall’inquinamento luminoso dei grossi centri urbani, possiamo osservare “lo spettacolo cosmico” in tutta la sua diffusa e luminosa bellezza. Mi soffermo ancora una volta sulla porzione di cielo che dalla prima notte m’ha rapito l’occhio. È lui o non è lui? Giungono in soccorso Eugenio e Caterina ricalibrando le applicazioni stellarium dei loro smartphone, quelle che consentono di individuare i nomi delle stelle puntando il cellulare verso lo spazio. Poche lune fa, gli obiettivi dei telefonini m’ingannavano individuando il grande carro laddove mi sembrava di riconoscere la costellazione del centauro, di norma osservabile solo da una posizione situata nell’emisfero australe. Puntiamo l’applicazione verso il cielo e… ha ragione Franco Piperno, diceva bene Alan Sorrenti: riconoscere un corpo celeste a occhio nudo, provoca la stessa sensazione che puoi provare ritrovando un amico che non vedevi da tempo. Se la vita sulla Terra è frutto del gavettone di una cometa, da lei ricevuto uno o due miliardi d’anni fa, e se dunque è vero che essendo fatti della loro medesima sostanza, in qualche modo “noi siamo figli delle stelle”, allora la specie umana rappresenta l’autocoscienza degli astri. Quando li guardiamo, sono loro stessi che, attraverso i nostri occhi, si guardano.
Giuro di non aver né fumato né bevuto. Ma a prescindere dal fatto che l’avevo cercato sulle mappe celesti prima di intraprendere il viaggio, ho l’impressione di averlo già visto da qualche parte, il centauro, sebbene io non sia mai stato a sud dell’equatore prima di questo viaggio in Tanzania con “La Terra di Piero”.
(continua)
Claudio Dionesalvi
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