Per Sara Guerriero il trasferimento da Cosenza a Salerno è scattato dopo aver dato alla luce un bambino. Sarà una coincidenza? «Non è mai troppo tardi», recita uno spot dell’Istituto Helvetico Sanders, l’azienda di cui la neomamma è dipendente. In effetti non è mai troppo tardi per perdere il posto di lavoro nell’Italia dell’era neoliberista. E se un giudice decide che devi essere richiamata in sede, pazienza. L’azienda ti trasferisce lo stesso.
È una battaglia infinita, quella che sta conducendo Sara, a colpi di cause, denunce, lettere di trasferimento, accorate richieste di mediazione. «Gli affari dell’azienda non vanno benissimo, non puoi lavorare più qui, ti mandiamo a 257 chilometri di distanza». Prendere o lasciare. Questa la motivazione ufficiale. Ma Sara non si è persa d’animo e mutuando un altro slogan pubblicitario che l’Istituto adotta nella prevenzione della caduta dei capelli, ha deciso che «il posto di lavoro va difeso, non rimpianto». Una sua collega si è opposta al licenziamento e pochi giorni fa ha ottenuto una sentenza a lei favorevole. Motivazione: «Individuazione errata del soggetto da licenziare».
Nel primo ricorso presentato contro il trasferimento di Sara, l’avvocato Giuseppe Lepera scriveva: «Il motivo sostanziale e reale che ha portato l’azienda ad eliminare la figura della Guerriero (che non potendo essere licenziata è stata ‘solo’ trasferita al fine esclusivo di sollecitarne, poi, le dimissioni non potendosi certo mai immaginare un distacco della ricorrente dal figlio neonato che ama più di ogni altra cosa al mondo) da Cosenza e, più in generale, dalla Farmasuisse s.r.l. (ragione sociale dell’Istituto Sanders ndr), è legato alla maternità e va inquadrato nell’ambito della politica aziendale volta ad eliminare, di fatto, le dipendenti non più giovani, sposate e, soprattutto, madri».
La giudice del lavoro, Silvana Ferrentino, nel dicembre scorso ha accolto il ricorso d’urgenza ritenendolo fondato, quindi dichiarando illegittimo il trasferimento, precisando che «La società datrice di lavoro ha motivato la necessità della soppressione della posizione lavorativa della ricorrente nella sede di Cosenza nel calo di redditività. Ma dai bilanci relativi agli anni 2012, 2013 e 2014 non emerge tale dato».
Tuttavia, a distanza di pochi giorni l’azienda inviava una nuova lettera di trasferimento, come se nulla fosse.
A questo punto, per conto della lavoratrice, l’avvocata Elena Montesano ha presentato una denuncia-querela al procuratore della Repubblica di Cosenza, accusando l’azienda di aver «palesemente eluso il provvedimento del giudice». Il pm Giuseppe Cozzolino, poche settimane dopo, ha chiesto l’archiviazione del procedimento, ma la difesa di Sara ha già depositato opposizione.
Intanto, avverso il secondo provvedimento di trasferimento l’avvocato Lepera ha presentato un nuovo ricorso d’urgenza dinanzi al Giudice del lavoro, che ha fissato la discussione per il prossimo 13 marzo.
«In nome della legge», l’Usb di Cosenza annuncia clamorose azioni di protesta davanti alle sedi dell’Istituto. Il portavoce del sindacato, Giuseppe Tiano, si scaglia contro il carattere «strumentale» del trasferimento: «In sei anni Sara ha sempre lavorato con assoluto rigore e professionalità, ricevendo persino il premio di produzione. Questo episodio – conclude Tiano – dimostra che oltre alla cancellazione dei diritti elementari, si stanno perdendo anche le ultime tracce di qualsiasi civiltà d’impresa».
La legge vieta al datore di lavoro di licenziare la lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
D al 2011 al 2016 in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30%. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing negli ultimi due anni sono state 350mila le donne discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare lavoro e vita familiare. Non sembra dunque un paese per mamme, questo. È invece la fotografia di un’Italia dove dominano spesso vessazioni, ordinarie ingiustizie, discriminazioni subdole che hanno come bersaglio le lavoratrici da poco diventati madri, considerate dalle aziende «meno produttive». Spesso – confermano i sindacati – la denuncia verso i datori di lavoro viene ritirata senza avere neppure raggiunto un adeguato compromesso economico. Le lavoratrici subiscono in silenzio e quindi, esasperate e avvilite, se ne vanno per sempre. Non così a Cosenza.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
“il manifesto”, 3 marzo 2017
Leave a Reply