Parlando della nostra tifoseria, noi stessi diciamo che gli scontri con gli altri gruppi non ci hanno mai contraddistinto più di tanto. Per usare un inciso i Nuclei Sconvolti non erano uno di quei gruppi che se le andava a cercare. Ma, quando provocati, ci siamo sempre fatti rispettare bene e chi voleva ci trovava sempre pronti. Diverso è stato il discorso con le forze dell’ordine. Anche il derby, partita di per sé particolare, rientra in questo paradigma?
Per noi lo scontro era la continuazione del gioco. A fine partita, uscire dallo stadio e ingaggiare lo scontro con le forze dell’ordine, la celere soprattutto, faceva parte del Derby o di alcune determinate partite più sentite. Non c’era una cesura, un distacco tra l’organizzazione dello spettacolo, la coreografia, l’evento e il cercare lo scontro con le forze dell’ordine perché avevamo la convinzione che quello fosse uno spazio conquistato inviolabile e che la nozione di “territorio” non fosse limitata alla curva ma si allargasse all’intero quartiere, il quartiere dello stadio, San Vito, e al resto della città. In quella giornata il quartiere diventava patrimonio dei ragazzi di tutti i quartieri della città. L’85, il famoso derby del goal di Aita, presidiammo l’esterno dell’impianto da venerdì sera. Quarantotto ore prima noi eravamo già all’esterno dello stadio perché circolavano voci sul fatto che sarebbero arrivati i “giallorozzi”. C’era un’attesa spasmodica, figlia, in questo caso, del sentimento di vendetta per quanto era successo nel girone d’andata.
Alla fine di queste partite spesso non trovavi gli avversari che, magari, erano già andati via o non erano proprio venuti bensì questi qua in divisa grigia, in tenuta antisommossa, molti dei quali provenivano proprio dalle zone del catanzarese, da Reggio Calabria; era la famigerata celere di Vibo. Si creava così un mix di campanile, difesa del quartiere, voglia di misurarsi col gioco della guerriglia e non era un fenomeno riservato a 10-20 persone ma erano centinaia i ragazzi che a fine partita uscivano e cominciavano a tirare sassi. Così avvenne non tanto l’85, perché non successe quasi nulla, ma nei Derby successivi come, ad esempio, quello dell’88-89, con una vera e propria guerriglia all’esterno dello stadio che durò per un’ora, un’ora e mezza. Uno scenario da sommossa popolare! Ricordo che uscimmo dieci minuti prima della fine della partita e fu automatico cominciare ad alzare le barricate, ribaltare i cassonetti e dargli fuoco, scatenare le sassaiole. Anche perché all’interno dello stadio la celere, per una cavolata, per un tentativo di alcuni tifosi della Tribuna di avvicinarsi ai catanzaresi, (quell’anno finalmente c’erano, quattro gatti ma c’erano), caricò picchiando tifosi normali, padri di famiglia. Quindi noi avevamo più di una ragione per andare a scontrarci quel giorno. E fu un “gioco” di cariche e contro-cariche. L’ultima la ricordo benissimo perché oramai il piazzale dello stadio era praticamente deserto, c’eravamo rimasti noi e loro. Saremmo stati un 150-200 persone con i grandi del gruppo tutti avanti a guidare e noi dietro. Poi ci si ritirava perché non era una situazione di scontro fisico con la polizia. Lo scontro fisico ci fu, ma furono scaramucce nelle stradine del quartiere quando loro picchiarono gente sotto casa e gli abitanti delle palazzine scesero, lanciarono vasi dai balconi e qualche poliziotto che rimase intrappolato le prese di brutto. Noi invece ci limitammo a fare il gioco della guerriglia: avanti e indietro, sassi e barricate. L’ultima carica la ricordo benissimo perché urlammo tutti insieme «celerino figlio di puttana» e partimmo. E lì li ho visti ritirarsi. Alla fine non ce la facevano davvero più perché gli arrivavano 200 sassi nello spazio di 3-4 secondi. L’armamentario della Polizia non era quello di oggi, erano sì protetti ma mica tanto imbottiti, per cui ricordo che ad ogni sassaiola 1-2 li vedevi cadere. Loro sparavano lacrimogeni ad altezza d’uomo, per fortuna solo i lacrimogeni all’epoca. Fu per noi un gioco, un gioco rischioso e divertente, una danza che si concluse in tarda sera.
A Cosenza, in linea generale, al di là dello scontro con i catanzaresi o dello scontro in sé contro l’ultrà rivale, in molti ragazzi che per tutta la settimana nei quartieri venivano bersagliati da tutta una serie di situazioni, prevaleva l’attitudine a ritrovarsi uniti contro un nemico comune.
Intanto c’erano persone tra di noi che pian piano andavano politicizzandosi. Le letture, i viaggi, la militanza negli spazi autogestiti, la sensazione che nessuno di noi avesse davanti a sé un futuro garantito, la rabbia verso una realtà sociale opprimente in cui non ci riconoscevamo, ci spingevano a razionalizzare ciò che accadeva. Quindi la collera a sprazzi, tipica della fase adolescenziale, era supportata da un ragionamento anche ideologico. C’erano pure i ragazzi dei quartieri più “bassi” che questo approccio ideologico non l’avevano eppure si portavano dentro il risentimento verso lo Stato, il rancore nei confronti di chi ti aveva arrestato i genitori, il fratello, l’amico, perché attivo nella malavita. Lo Stato, le divise, erano visti come un’invadenza, un’intrusione. E per certi versi nei quartieri ancora lo sono. Questa alleanza, questa intesa spontanea che si formava, diventava un mix micidiale. Basta guardare le foto di quegli anni all’esterno dello stadio.
Torniamo ai derby. Riferendoti a quello dell’aprile 1985 hai accennato ad un vero e proprio sentimento di vendetta per quanto accadde nella partita d’andata. Cosa ricordi di quella prima trasferta a Catanzaro?
La trasferta del novembre 1984 la saltai perché avevo 13 anni e i miei genitori riuscirono a fermarmi. Nessuno poté bloccarmi invece due anni dopo, il 28 marzo 1987, quando partii da solo. Quest’ultima è una storia che sanno in tanti, che ho raccontato diverse volte, dunque ho poca voglia di parlarne ancora. L’85 comunque il rancore in città per quanto era accaduto all’andata, per le aggressioni ai danni soprattutto di tifosi normali e ignari, era molto, molto forte. Gli ultrà del Catanzaro rivendicavano di aver massacrato i cosentini in quell’occasione. In realtà in molti possono testimoniare che sicuramente tanti cosentini le presero, ma si trattò, per lo più, di famiglie, di gente raggiunta da sassate nei pullman. Ricordiamoci che erano in 4-5000 all’epoca. Gli ultrà erano impreparati, non ancora detentori della mentalità che poi sarà caratteristica degli anni successivi. Molta gente era del tutto sprovveduta e sprovvista dell’approccio giusto per difendersi. Ma se per gli ultrà si può riconoscere che è un problema tutto loro, perché se vai in una trasferta o lo fai nel 1985 o lo fai nel 2045 devi essere consapevole di cosa ti può succedere, per il tifoso normale la questione è differente. E lì ci furono famiglie, gente che usciva dallo stadio ignara, del tutto sorpresa dalle aggressioni che stava subendo in una città che considerava amica, ricordando gli anni del Catanzaro in serie A. Da parte catanzarese c’era poco da rivendicare dunque, e forse qualcosa di cui vergognarsi. Ricordo che in quegli anni, dietro lo striscione Generazione Giallorossa, peraltro graficamente fatto molto bene, una volta ne esposero uno vergognoso non solo per Catanzaro ma per tutto il nostro tempo. Nero, con i caratteri runici, apertamente fascista, e su scritto: “Ad un anno dallo sterminio, l’olocausto continua. Cosenza crepa”, chiuso dalla stella di David. Con questi toni loro continuavano a rivendicare i fatti dell’andata ’84-’85 e da questa parte montava un odio feroce con una città intera pronta a fargliela pagare a tutti i costi e con ogni mezzo necessario.
Ma un vero e proprio scontro fisico con i catanzaresi in occasione dei derby c’è mai stato ?
Direi di no. Un vero e proprio scontro fisico con i catanzaresi in queste occasioni non c’è mai stato.
Ci fu nella trasferta del 1987 un tentativo anche se poi, in realtà, a livello di scontro reale non avvenne nulla. Quella è stata la trasferta dove successe tutto e niente. Uscendo dallo stadio, la parte dura della curva Ovest ci aspettò fuori e si verificò una reciproca sassaiola, molto breve ma intensa, seguita da un tentativo di contatto. Da una parte e dall’altra tentammo di avvicinarci ma dopo nemmeno 10 metri la celere ci fece una strapazzata veloce, manganellate intense, una scarica di calci in culo e via. Ricordo che da una scalinata scesero in 30-40 di loro lanciando sassi e avvicinandosi, però fu una scena rapida. Regalò più “soddisfazioni” il viaggio di ritorno da Catanzaro a Cosenza. Sembrava il “far west”: blocchi nelle stazioni, continui blitz e contro blitz, sassaiole. Non fu una “guerriglia guerreggiata” ma uno scontro di bassa intensità, di reciproco logoramento. Tornati in stazione dopo la partita, la missione era compiuta. L’obiettivo era arrivare a Catanzaro e tornare. E per questo i 108 di Catanzaro, il Nucleo 29 Marzo, sfidarono davvero tutto e tutti perché all’epoca veramente non eri sicuro di nulla, andando in una città dove 20.000 persone ostili assiepavano lo stadio. Non c’era ancora questa certezza della scorta, anzi quella fu la prima volta in cui vedemmo tutta quella polizia. Pochi mesi prima, per esempio, a Foggia ci eravamo trovati in un’improvvisazione totale dell’ordine pubblico. Durò pochi istanti. Poliziotti che finivano sotto le macchine, che cadevano a terra in mezzo alla sassaiola e chi, prima di me, era andato in posti come Torre del Greco, aveva visto e vissuto in prima persona cosa significasse l’assenza totale della scorta in un paese del Sud che ti è ostile. A Catanzaro ci aspettavamo uno scenario simile, invece arrivarono elicotteri e camionette. Io non l’avevo mai visto uno schieramento del genere, nessuno si aspettava di trovare quell’apparato e invece l’apparato si manifestò in tutta la sua potenza.
A Catanzaro comunque un anno senza scorta ci siamo andati. Agosto 1992: il Derby del Torneo Ceravolo. Giocavamo noi, il Catanzaro, l’Inter e l’Ajax. Ricordo bene che vincemmo. L’unica partita in cui ho visto il Cosenza battere il Catanzaro al Ceravolo. Al contrario di quanto ho letto sui social e sentito in questi ultimi mesi noi, quell’anno, andammo senza scorta. Era il 13 di agosto ed eravamo un centinaio, faceva un caldo mortale, scendemmo dal treno e usciti dalla stazione non trovammo nemmeno una macchina della polizia, c’erano solo due polferini, due. Ci guardammo estraniati perché pensavamo: non è possibile, che facciamo? Qualcuno disse: «Aspettiamo che…», «NO! Non aspettiamo un cazzo», rispondemmo in tanti, e partimmo a piedi. Dopo 4-500 metri in salita sul “cùazzo” cominciarono i tafferugli. Chiunque passasse erano schiaffi, calci alle macchine, scambio di “complimenti” con la gente dei balconi, due ragazzi in vespa ebbero l’ardire di transitare in mezzo a noi e ricevettero una scarica di schiaffoni. Caddero a terra con tutta la vespa. Arrivò una macchina della polizia con la sirena sparata e gli sbirri, appena usciti, si presero una raffica di calci in culo e di ceffoni, così uno di loro iniziò a prendere di mira Ciccio: «Appena arrivano i colleghi te la faccio pagare». Dopo pochi minuti arrivarono effettivamente i rinforzi ed erano rinforzi veri, 3-4 camionette della celere di Vibo che evidentemente ci stavano aspettando allo stadio. Ciccio lo presero subito, lo massacrarono di botte e lo arrestarono tenendolo dentro, mi pare, alcuni giorni. Non ci fu niente da fare. Lo risucchiarono. Fu davvero un pomeriggio duro perché non avevano mai arrestato uno di noi in quel modo, portandoselo via. Il senso d’impotenza, il caldo, questi che erano inviperiti perché dicevano che gli avevamo picchiato i colleghi e hanno continuato a provocarci fino a quando non ce ne siamo andati. Dunque non è vero che non siamo mai andati a Catanzaro senza scorta, non solo ci andammo ma ce la facemmo pure a piedi per un lungo tratto dentro la città.
Un ultimo episodio che merita di essere raccontato, è la partita di coppa Italia notturna nel 1997 a Cosenza. Bisogna essere sinceri: quella volta i catanzaresi vennero massicci e attraversarono una parte della città a piedi, baldanzosi. Sì, è vero: erano scortati e arrivarono da viale Magna Grecia. Però da parte nostra ci fu una grave sottovalutazione. Nessuno si sarebbe mai aspettato che i catanzaresi fossero così tanti e determinati.
Invece, se ti dovessi chiedere quale fu in assoluto la giornata più dura nella storia dei derby?
Il 9 aprile 1989. Forse fu la più dura. L’intifada alla stazione passò alla storia. A fine partita io facevo parte del primo gruppo di cosentini che scese dal Ceravolo verso la stazione in autobus, e non perché siamo voluti salirci noi ma perché ci dovevi salire per forza altrimenti la polizia ti picchiava. Arrivammo alla stazione con 5-6 feriti, ma feriti seri, perché eravamo compressi in questi autobus e piovevano sassate da tutte le parti. C’era gente tra di noi (a dimostrazione della sprovvedutezza dell’epoca) Che prese sassate alla nuca perché stava con la testa appoggiata ai vetri. Nonostante fosse un Derby, nonostante lo scontro, l’attesa e tutto quel clima. Nonostante già all’arrivo alla stazione ci fossero stati tafferugli con la polizia e i catanzaresi lanciassero sassi da un’altezza impossibile, nonostante avessero lanciato sulla prima carrozza (nella quale viaggiavo anch’io) una bottiglia incendiaria che non prese fuoco per miracolo. Nonostante tutto ciò, all’uscita dello stadio, c’era gente che stava lì introiata sul pullman come se fosse in gita. Quelli più esperti, anche se eravamo tutti ragazzi di 17-19 anni, riuscimmo ad evitare danni solo perché ci sistemammo al centro. Ogni volta che provammo a scendere, ci manganellarono. Comunque fra le sassate che lanciavano loro e i danni che facevamo noi per reazione e per i tentativi di scendere, i mezzi arrivarono alla stazione completamente inservibili. Il resto dei nostri, che erano 2000-2500 persone, dovette scendere per forza a piedi. Questi fecero carne da macello, camminarono massicci e sfasciarono tutto. Io sono stato testimone indiretto di tutto ciò perché, il giorno dopo, tornai a Catanzaro per la visita di leva. Rientrammo a Cosenza alle 4 del mattino e alle 6 ripartii e vidi con i miei occhi le vetrine rotte, le macchine ribaltate cioè i segni di una guerra. Lascio immaginare il clima che trovammo quel lunedì mattina. Arrivai persino alle mani con uno in caserma e i carabinieri mi fermarono. Per fortuna ero con gente dei quartieri di Cosenza, fratelli con cui ci difendemmo l’uno con l’altro e alla fine della visita uscimmo in 20 per andare alla stazione, con le cinte in mano. A distanza di 50-60 metri una macchina dei carabinieri arrivò sfrecciando e ci scortò fino ai pullman di linea. Questo avvenne il giorno dopo, e noi comunque ci eravamo incamminati a piedi dentro Catanzaro anche il in quella circostanza, a rischio linciaggio. Perché devi essere pure un po’ incosciente a 18 anni, altrimenti hai un’altra età. Il giorno prima, per tornare alla partita, quando alla stazione venimmo a sapere che gli altri stavano scendendo a piedi, ci rifiutammo di salire sul primo treno nonostante il pressing della polizia e le cariche. Restammo in 50-100 ad aspettare, in pratica rimanemmo lì fino a mezzanotte perché aspettammo che tutti i blocchi di cosentini furono partiti e salimmo sull’ultimo treno speciale, mi pare fosse il quarto. Lì fu guerriglia vera. Treno in mezzo, noi da una parte e la polizia dall’altra, scambi continui di cariche, ma selvagge, con gente che si faceva davvero male. In diversi siamo tornati a Cosenza con le teste rotte, alle 4 del mattino, da una città che dista un’ora da qua. L’89 fu veramente una situazione dura da questo punto di vista.
Ci sono aneddoti che ti sono rimasti ancor oggi, anche generali, riferiti ai derby?
Certo. Mi ricordo alcuni aneddoti a proposito dei vecchi, non i vecchi ultrà ma i nostri familiari, cioè come i genitori reagivano a questo tipo di eventi.
Per esempio il giorno in cui perdemmo il derby in casa 1-3, il 16 novembre 1986, quando entrò in campo con loro l’innominabile… e ci fece due goal. A fine partita mi sembra di vederli ancora oggi: tornai a casa e sotto vi trovai il padre e la mamma di Piero Romeo che piangevano. Cioè, la sconfitta in casa col Catanzaro fu un lutto cittadino vissuto da donne, vecchi e bambini. Non c’era una parte della città che diceva: «Ancora aru campu jati» oppure «Ancora appriassu aru Cusenza jati»; c’era invece una comunità diffusa, compresi quelli che non venivano allo stadio, che si sentiva unita in questo dispiacere, nel lutto generale per la sconfitta. Me lo ricordo con amarezza ma pure con un pizzico di nostalgia, quel derby. Perché forse fu quello il giorno in cui iniziai a innamorarmi di Loredana. Me l’aveva presentata un amico qualche settimana prima ma, come spesso accade nella vita, tra di noi non era nata subito un’attrazione. Anzi, ci stavamo reciprocamente antipatici. Quella domenica invece la vidi sulla balaustra superiore, in curva. Lei era una delle poche ragazzine che venivano allo stadio senza essere la fidanzata di Tizio o di Caio. Veniva insieme alle sue amiche, liberamente, e nonostante fosse già molto bella, aveva modi da rude boy, tipici di una “crisciuta ari Rivucati”. Nella tristezza profonda e nella rabbia funesta per la sconfitta che rendeva tutto così cupo, mi bastò guardarla per trovare uno spiraglio di cielo. Il nostro non è stato un caso isolato: tantissime amicizie e amori sono sbocciati su quei gradoni! Alcuni hanno resistito alla prova del tempo.
Comunque, a proposito di derby agitati e di meravigliose figure femminili, ricordo la mamma di Petruzzu, la mitica signora Nerina, che aspettava preoccupata e incazzatissima Pietro e tutti noi all’altezza del ponte dell’autostrada in cima alla salita di via degli Stadi. “Pietro Mamma” sapeva essere molto più truce di Petruzzu quando voleva, e stava lì furiosa perché, come mia mamma e tutte le altre, temeva che tornassimo a casa con la testa rotta o in manette. Sempre a proposito del “ciclo di racconti sui genitori” e di derby agitati, al ritorno da Catanzaro il 29 marzo dell’87 ci sarebbe voluta una telecamera nella piccola stazione delle Calabro-Lucane. Ad aspettarci c’era infatti tutta Cosenza: donne, fidanzate, mamme, genitori in lacrime che abbracciavano i figli come al ritorno dalla guerra. Fu un abbraccio collettivo generale, tanto che la polizia non ci capì un cazzo e noi riuscimmo a scappare e tornarcene a casa senza che ci venissero a bloccare perché c’era il rischio pesante che qualcuno di noi fosse arrestato. Nell’autunno dell’88, invece, quando lo scontro con la celere si fece molto aspro e impedì a centinaia di persone di uscire dalla zona Nord della Tribuna B per avvicinarsi alle palazzine e andare a riprendere le proprie macchine, ricordo il padre di Dinuzzo, grandissimo tifoso e autore di storici inni del Cosenza, che dalla parte opposta del marciapiede mi diceva: «Oi Cla’, ‘un rumbiti u cazzu ca n’ami i ricoglia, armenu facitini passa’ prima e pu’ faciti chiru ca vuliti, però n’ami i jì a piglia’ i machine, ‘un putiti rumba i cugliuni». Sempre a proposito di questo derby, siccome i danni al quartiere furono notevoli, la sera nella sala giochi dove stazionavamo venne gente del quartiere Stadio incazzatissima a cercarci e chiedere spiegazioni. Fu una dinamica molto cosentina… ci salvammo per un pelo, c’era gente imbufalita, che voleva romperci il culo per i danni al quartiere. Al di là dell’odio verso la celere che quella sera era un fatto condiviso, l’abitante del quartiere non capiva il cassonetto ribaltato, non capiva il gesto da guerriglia. Quindi vennero a chiederci spiegazioni e ci salvammo per il rotto della cuffia perché ancora in questa città erano possibili delle mediazioni, e quelle mediazioni ci salvarono.
Quando segnò Aita, il 6 aprile ’85, il papà di Manolo, che abita a Mendicino, sentì il boato. Lo udì chiaro, netto e prolungato. E Mendicino in linea d’aria non è certo vicina a Cosenza. Magari sarà stato un fenomeno acustico agevolato dal vento favorevole, però ci descrisse il boato in tutta la sua intensità. Cioè, il goal di Aita fu un urlo liberatorio scandito da 20mila persone che fece vibrare l’intera terra bruzia. In quel derby quando alzammo il bandierone copri-tribuna, commettemmo un piccolo errore strategico, mentre lo alzavamo accendemmo contemporaneamente i fumogeni e lanciammo quintali di coriandoli. Si creò un effetto “camera chiusa”. Fu soffocante. La temperatura nelle prime file si alzò a 50°, per cui ad un certo punto scappammo tutti indietro altrimenti saremmo soffocati. Aneddoti tragicomici, per fortuna solo comici: nessuno si fece male. Però noi fummo quantomeno impreparati, imprudenti nel realizzare una coreografia come quella con tutti quei fumogeni, con un bandierone tanto grande, con i coriandoli e tutta quella carta in una situazione di estrema densità degli spettatori. Eravamo pressati come sardine, non avevi nemmeno lo spazio per la fuga. Per fortuna gli stadi di calcio non erano le mostruosità di oggi, negli stadi odierni quell’apparato coreografico provocherebbe una strage perché hanno costruito barriere dappertutto e non sai dove scappare in caso di incendio o di eventi straordinari. Alla faccia dell’incolumità e dell’ordine pubblico! Sempre a proposito di quel derby, a ulteriore dimostrazione del clima che lo accompagnava, circolava in quei giorni una voce insistente che si rivelò poi una leggenda urbana. Secondo quella voce, all’accensione dei fumogeni ci sarebbe stato un cosentino pronto a sparare sul portiere del Catanzaro, Bianchi. Per fortuna si rivelò solo una diceria però questa storia girava con una determinazione inquietante e tutti sapevamo, ma non dicevamo ad alta voce, che fra di noi c’era il pazzo pronto a compiere un attentato. Questo accadeva perché all’andata, uscendo dal campo, il giocatore aveva alzato il ditino medio contro la curva nostra. Al di là del ditino, le aggressioni ai danni dei tifosi normali di cui ho detto, fecero sì che l’ipotesi dell’attentato a colpi di pistola, poi per fortuna rivelatasi falsa, apparisse attendibile, verosimile per tutti. Questo era il clima di quel derby, da vera e propria guerra civile.
Hai accennato alla trasferta di Catanzaro del 29 marzo 1987, precisando che ne hai già parlato altrove, ovvero in un articolo su «Tam Tam e Segnali di Fumo» in versione rivista, che noi ripubblichiamo anche in questo numero. Molto simpatico è l’aneddoto di Piero che, in mezzo a piazza Kennedy, ti vieta di poter partire anche perché ci lascia immaginare l’esser ultrà, per così dire, di quel periodo.
Piero era stato alunno di mia mamma e a lei, passando da piazza Kennedy, bastò guardarlo negli occhi. Si capirono al volo. Mia madre stava sempre dalla mia parte, però non poteva accettare che mi mettessi nei guai. Mio padre era morto pochi mesi prima. Inoltre lei non era d’accordo con la nostra guerra contro Catanzaro. Rivendicava la calabresità. All’epoca gli ultrà vendevano i biglietti dei pullman delle trasferte a piazza Kennedy. Gli ultrà stavano in piazza, stazionavano sempre per strada. Non esisteva per noi il concetto di sede, di riunione chiusa, di club, di gruppo appartato. Non faceva parte della nostra cultura. Qualsiasi cosa si faceva in piazza Kennedy o, al limite, nella Mensa dei Poveri che poi in fondo per noi fungeva da sede e diventava una piccola piazza “chiusa”, ma pur sempre una piazza era, perché ti capitava d’incontrare e di avere a che fare con gente che nemmeno in mezzo alla strada trovavi: tutto il campionario dei diseredati, dei cosiddetti “matti” della città. Mentre facevi l’assemblea ti passava intorno e davanti di tutto. Oggi mi viene da ridere quando sento parlare di gente che spende soldi per la formazione e per vivere esperienze nel sociale. Quella per noi fu una formazione permanente alla vita e alla diversità. Non potevano svilupparsi una mentalità intollerante, una visione xenofoba, un fascista militante, in mezzo a noi. Sarebbe stato impossibile: eravamo immersi dalla mattina alla sera nella diversità. Il luogo più riservato che abbiamo frequentato in quegli anni, è stato anche il più aperto. E ciò che non si riusciva a produrre al chiuso della Mensa dei Poveri di corso Mazzini, si compieva in piazza. A “Kennedy” venne per esempio un poliziotto famoso dell’Ufficio Stadio a sequestrarci il blocchetto dei biglietti del pullman prima di partire per Salerno, l’anno della promozione con goal di Padovano. Venne e strappò il blocchetto dalle mani di Rinetto, minacciandolo. Noi per Salerno stavamo partendo, saremmo andati al “Vestuti” senza scorta e senza nemmeno il biglietto dello stadio. Eravamo 27 persone, 10 dei quali della Nuova Guardia. Con questo voglio dire che le trasferte vietate, la tessera del tifoso, il biglietto nominativo, sono un fatto recente, ma la repressione è un dispositivo antico che si è espresso alle volte in forme anche molto più soffocanti di oggi. Erano episodi, certo, gli apparati repressivi non adottavano i metodi scientifici odierni. Non c’erano ancora i servizi segreti che lavoravano dietro agli ultrà. Però ci vietavano le trasferte, ci identificavano uno per uno, ce ne combinavano di tutti i colori. Per qualcuno la repressione negli stadi degli ultimi anni sarà una novità, ma non lo è per la nostra generazione. La differenza con oggi è che devi chiedere il permesso per ogni cosa, devi farti autorizzare tutto, dalla presenza allo stadio alle scoreggie. Altrimenti ti daspano o ti arrestano. Invece all’epoca avevamo la sensazione che quello spazio, la curva, fosse inviolabile e che neanche lo Stato potesse metterci piede. I fatti degli ultimi anni dimostrano che non è così.
Tornando al racconto degli affetti, a mia mamma insomma bastò passare da piazza Kennedy e guardarsi negli occhi con Piero e lui capì che il biglietto per Catanzaro non me lo doveva staccare. All’epoca bastavano tre anni di differenza per riconoscere la gerarchia e il rispetto verso i “vecchi” della curva, adesso a volte non sono sufficienti trent’anni perché arriva l’ultimo cretino e pretende di darti lezioni di ultrà. In fondo penso che sia un fatto generazionale e forse sia anche giusto che i nuovi scalzino i vecchi, purché l’atteggiamento dei nuovi non diventi offensivo per la storia e il presente di chi certe situazioni le ha vissute sulla propria pelle e pagate in prima persona, senza trarne alcun beneficio. Invece all’epoca dovevi stare molto attento quando parlavi coi più grandi. Specialmente se il più grande si chiamava Piero Romeo, se di anni ne aveva dieci più di te, e se ti aveva cresciuto. Non è che potevi ripetere due volte la stessa domanda, senza beccarti un ceffone o come minimo una guardata storta. Piero mi disse una volta sola: «Tu a duminica a Catanzaro ccu mmia ‘un ci vìani. Punto e basta». Quando provai a insistere, scattò in piedi e mi inseguì, ma io scappando gli dissi: «Ci vediamo domenica a Catanzaro», perché lui era più grande ma io avevo pur sempre il mio orgoglio e portavo al collo la sciarpa dei Nuclei Sconvolti. Così sono partito da solo alle 7 del mattino e sono andato a Catanzaro, e lì ho capito che cosa significa andare da solo in una città ostile.
Raccontaci qualche cosa di Cosenza-Piacenza e dello striscione “La vostra repressione non distruggerà la nostra fede”. Anche questa storia è collegata al Derby?
Sì, mi pare di sì. Celere, polizia e carabinieri li abbiamo mandati a fare in culo per tutta la partita.
Quella mattina noi arrivammo allo stadio e per un qualche motivo che adesso mi sfugge, ma che in qualche modo rappresentava una ripicca per qualcosa accaduto durante i derby, la polizia ci impedì di entrare con gli striscioni, senza fornirci alcuna motivazione. Ovviamente noi, che eravamo una trentina, ci ribellammo e cominciò un battibecco nell’antistadio con minacce e controminacce: «Allora ci vediamo oggi a fine partita, ve la facciamo pagare». E loro: «Attento a come parli ché ti arresto». A un certo punto la polizia si allontanò, passarono 10 minuti e arrivò la malavita. Ricordo che uno di loro si avvicinò chiedendoci quale fosse il problema. Noi spiegammo il tutto e loro ci dissero che non dovevamo insistere, lasciandoci sbigottiti, tant’è vero che ancora oggi mi chiedo cosa ci fosse dietro quella partita, perché sembrava che tutti fossero d’accordo contro di noi, compreso “l’ambiente”. Che di solito con noi dialogava perché eravamo i guagliuni, eravamo i “figliocci” loro allo stadio, quindi da proteggere e consigliare, da guidare. Cioè la malavita a Cosenza in quegli anni non ci ha mai, o quasi mai, rotto i coglioni. Anzi, diciamo le cose come stanno, interveniva spesso a mediare e a risolvere, a patto però che non intaccassimo i loro interessi. In quel caso, intervenivano si di noi brutalmente. Quella mattina invece quando provammo a spiegare che avevamo subito un abuso, ci dissero: «Vabbè, è juta accussì, v’aviti fa’ i cazzi vùashri, punto e basta. V’hannu dittu ca unn’aviti minda i shrisciuni, e non li mettete». Allora Maruzzu rispose: «Ma cchi ci c’intri tu?!» e si beccò uno schiaffo potentissimo che un altro po’ lo faceva cadere a terra: «Come ti permetti a chiedermi cchi cci c’intri tu»? La nostra risposta fu entrare senza striscioni, con l’unica frase scritta a bomboletta: “La vostra repressione non distruggerà la nostra fede”. Cantammo per tutta la partita. Facemmo un tifo eccezionale e la cosa bella fu che ogni volta che lanciavamo un coro contro la polizia o i carabinieri, tutto lo stadio ci seguiva. C’era una solidarietà tra il mondo degli ultrà e dei tifosi che oggi è improponibile. In tribuna spesso stavano i nostri familiari, i vecchi tifosi, che dietro le quinte, nei faccia a faccia periodici, ci tartassavano e ce ne dicevano di tutti i colori, cercando di limitarci e arginarci, ma di fronte al nemico comune Cosenza era una pigna, non esisteva che il vecchio si mettesse contro il giovane per il comportamento “scorretto” nei confronti del poliziotto. Il vecchio e il giovane erano uniti contro lo Stato, questa era la regola. Basti pensare a quanto accadrà poi in occasione di Cosenza-Lecce quando i leccesi, al loro ingresso, furono scacciati dal settore dalla Tribuna B, e non dagli ultrà. Ci fu pure un’invasione di campo dalla curva. Alcuni di noi risposero al lancio di lacrimogeni. Tutto lo stadio si rivoltò contro la polizia che di fatto occupava il rettangolo del San Vito per non far cominciare la partita. All’epoca il “Fuori fuori”, il “Chi non salta è poliziotto” lo cantavano donne, vecchi, bambini, tutti. Forse perché eravamo pure più bravi noi a farci capire o forse semplicemente perché era un altro mondo, un’altra epoca. Comunque non era la situazione che si crea oggi: qualsiasi cosa accada, ti ritrovi tutti contro, non solo l’apparato repressivo ma anche la gente comune che non vuole più rotture di coglioni allo stadio.
È stato sempre detto che a Cosenza lo stadio, gli ultrà annullassero le differenze sociali, ma sembra pure, e questo vale soprattutto in quelli che possiamo chiamare gli anni dei derby contro il Catanzaro con particolare riferimento alla seconda metà degli anni Ottanta, un periodo in cui la vita della città era abbastanza travagliata, lo stadio ricomponesse i conflitti quotidiani. E questo avveniva, ovviamente, non solo durante i derby ma magari soprattutto in quelle occasioni.
Rispetto al rapporto di amore e scontro tra i quartieri della città, è inutile fare ragionamenti idealistici. C’è sempre stata una competizione, una concorrenza, a volte un astio, tra i quartieri di Cosenza, tra San Vito, via Popilia, Cosenza Vecchia, Panebianco. Come c’è, forse, in tutte le città. Prima però si riusciva a ragionare, si riusciva a ricomporre determinati conflitti non solo in occasione dei Derby. Durante le partite non esisteva quasi mai conflitto tra di noi. Il primo scontro grave e plateale, all’interno degli ultrà, tra i quartieri, avviene con la Fiorentina nel settembre del 1993. Questo è il primo episodio, altrimenti c’era armonia, soprattutto in alcuni casi come nella realizzazione delle coreografie c’era una sintonia, un’intesa incredibile, impensabile oggi come in fondo forse in anni recenti.
Andiamo a scomodare uno degli aspetti della cosiddetta sindrome del beduino: “Quando vengono quelli dell’altra città, tregua e tutti contro di loro. Noi ci facciamo la guerra durante la settimana”.
Ci mancherebbe che non fosse così. Ma anche perché, diciamola tutta la verità, Cosenza, la città di Cosenza, dal 1979 al 1986 vive una guerra di mafia sanguinosissima in cui cadono tantissimi ragazzi dei quartieri, alcuni dei quali frequentatori della curva. All’epoca morire sotto i colpi della banda rivale, del clan nemico, era non solo possibile ma un evento che dovevi veramente mettere in conto. Spesso venivano ammazzate persone perché bevevano nel bar sbagliato; stiamo parlando di 40-50 morti in sette anni, lupara bianca inclusa. Questa è la storia criminale della città. La prima sanguinosissima guerra fra le bande della città finisce nel 1986 quando si sancisce la pax. Allora, dispiace doverlo ammettere però le cose vanno dette per quelle che sono, dal 1986 al 1994, cioè fino all’“operazione Garden”, tra i giovani dei quartieri non potevano scoppiare litigi o conflitti anche perché così era stato deciso in alto. C’era questo elemento, non potevi litigare perché te lo impedivano loro. Se prima dovevi litigare perché te lo chiedevano loro, e spesso era proprio una scusa per aprire altri livelli di conflitto, dopo sarebbero stati loro stessi a vietarti qualsiasi tipo di scontro perché era stato deciso che bisognasse comportarsi così. Quindi questa armonia, vera o presunta che fosse, era anche un effetto di quel clima. Dovevi stare molto attento, insomma, a non essere troppo nervoso. Non a caso certi problemi in curva cominciano a verificarsi dalla metà degli anni venuto in poi, perché era venuto a mancare quel tessuto protettivo, quella rete invisibile che c’era, c’è e c’è sempre stata perché siamo una città del sud e come in tutte le città del sud, eccezion fatta per la Basilicata, c’è un controllo criminale più o meno intenso che interviene a reggere determinati equilibri. Un altro scontro sanguinosissimo, slegato comunque da qualsiasi logica di mala, avvenne nel ‘97 alla partenza per Padova, a causa di una sciocchezza, un diverbio per un posto in uno scompartimento. All’epoca furono i ragazzi di due quartieri a darsele, uno scontro durissimo nella stazione di Vaglio Lise, con un paio di feriti seri e la polizia che arretrò di 30-40 metri chiedendo a noi di intervenire per dividerli. Fu una rissa che durò, non voglio esagerare, un quarto d’ora e potete immaginare in una rissa di un quarto d’ora in un ambiente chiuso come una stazione ferroviaria, come ti fai male. Ci lasciò in silenzio, tramortiti per tutto il viaggio d’andata, e fu la premessa, il presagio di come sarebbero andate poi calcisticamente le cose quel giorno…
Come vivi il derby oggi? Cosa pensi, quali sono le tue emozioni?
Riaffiorano l’ansia, il pathos e la trance che ormai non riesco più a provare nelle altre partite. Però non esco più di casa per partecipare alla simulazione di una guerra. In questi ultimi 15 anni ho avuto il piacere e l’onore di conoscere alcuni ultras del Catanzaro. Con loro, che sono persone meravigliose, è nata un’amicizia sincera che va ben al di là del tifo o di qualsiasi altra categoria separativa. Non posso chiamarli “ragazzi” perché ragazzi non lo sono e non solo siamo più. Ho trascorso con loro giornate (e nottate) bellissime, sono entrato nelle loro case, ho visto le foto e i materiali che espongono proprio come facciamo noi, come fanno tutti gli ultrà del mondo nelle proprie stanze. Hanno vissuto le stesse situazioni nostre. Questa mia precisazione, da una parte e dall’altra, a qualcuno farà venire il mal di pancia, eppure io la devo fare per sincerità, onestà e coerenza, altrimenti direi una bugia a me stesso. Ho visto le foto – non faccio i nomi ma quando loro leggeranno capiranno – di questi che non sono più ragazzi, ma che all’epoca lo erano, che con le sciarpe giallorosse sul volto vivevano le medesime esperienze che vivevamo noi. Forse con qualche anno di ritardo rispetto a noi, perché le foto che ho visto io si riferiscono alla seconda metà degli anni ‘90 mentre da noi lo scontro con la polizia, con gli apparati dello Stato allo stadio, si è vissuto più a cavallo fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90. Ma è un dato anagrafico ininfluente. Quel che conta, è che anche dall’altra parte c’è gente che la viveva esattamente come noi e che secondo me oggi ha maturato le nostre identiche consapevolezze, senza fare un passo indietro rispetto alla propria dignità. Le differenze fra ragazzi non le farei. Nella rivalità, nel reciproco odio… no, “odio” è una parola che non ci sta proprio. Io ce l’avevo una maglietta “Catanzaro ti odio”. Quando realizzammo la coreografia dell’88 i grandi mi portarono con loro nella pista ad accendere i fumogeni; io ero il “delfino” di Piero per cui mi voleva spesso con lui. E mi presentai con questa maglietta azzurra “Catanzaro ti odio”. Riuscii a passare inosservato, nessuno se ne accorse e arrivai sotto la curva. Chiaramente la gente, appena vide la maglia, cominciò a fare cori e ad applaudire. Io ero tenero all’epoca, non mi rendevo conto. Arrivò la Digos. C’era un ispettore che sembrava una figura “simpatica”… Sergio mi bastonerebbe per l’aggettivo “simpatico” perché una volta da questo sbirro subì un infame abuso di potere. Comunque all’ispettore venne una crisi isterica quando mi vide: «Togliti sta maglia, sei impazzito?», mi strattonò e tutta la curva esplose in un “OOOOH”: sembrava un mostro a 2000 teste che insorgeva. Lui si rese conto che la situazione stava diventando incandescente e bisbigliò a padre Fedele: «Fallo venire via, prendi il ragazzo ché ce ne andiamo sennò vi faccio uscire tutti adesso». Padre Fedele mise in scena tutto il campionario di parolacce che lo hanno reso celebre: «Vieni qua, non rompere i coglioni ecc.». E io: «Ma non ho fatto niente di male». E lui: «Togliti ‘sta felpa sennò questi ci fanno saltare la coreografia». Alla fine mi tolsi la felpa. Appena la levai, si alzò un nuovo minaccioso boato di disapprovazione dalla curva. Allora ci fu una mediazione silente, mi rimisi la felpa al contrario e la scritta “Catanzaro ti odio” si leggeva in trasparenza da destra verso sinistra.
All’epoca odiavo Catanzaro. Oggi non rinnego niente, ma non posso dire di odiarla. Oggi odio le multinazionali, odio le banche, odio chi inquina, odio i politici corrotti e feudali, odio i poteri costituiti quando si presentano col manganello e i mandati di arresto, odio le autorità e l’autoritarismo, odio i razzisti, però non odio Catanzaro. Perché mi sembrerebbe anacronistico. L’ho odiata Catanzaro, perché il momento storico e la comunità in movimento di cui facevo parte, me lo chiedevano, imponevano quel sentimento. Ma nel 2016 non posso odiare le persone sulla base dell’appartenenza a un luogo. Auguro le peggiori sventure calcistiche al Catanzaro. Non il fallimento, però, a differenza loro che (non tutti, ma una parte di loro sì), hanno esultato quando noi siamo falliti. C’era, alcuni anni fa, uno striscione molto interessante dei laziali (mi pare). I laziali a me non sono mai piaciuti però, obiettivamente, ogni tanto facevano delle cose interessanti a livello di contenuto. Questo striscione recitava: “Le tre grandi paure dell’uomo: la morte, il tradimento, la retrocessione”. Auguro la retrocessione al Catanzaro, eccome se gliela auguro! Ma non auguro la morte sportiva del Catanzaro e non auguro la morte a nessun catanzarese perché nel mondo in cui viviamo mi sembra una grande stronzata odiare una persona sulla base del fatto che proviene da un’altra città. Naturalmente, se mi trovassi in una situazione di scontro fisico, non mi tirerei indietro, nonostante il mio non sia mai stato un fisico da confronto basato sulla forza. Tuttavia, oggi mi interrogo sulle origini di tanti comportamenti e fenomeni. Ha ragione il mio amico docente universitario catanzarese Nicola Fiorita quando dice che se trent’anni fa avemmo bisogno di essere reciprocamente ostili, forse ciò avvenne perché avevamo la necessità di crearci un nemico, un feticcio opposto, per poter cementare meglio i rapporti che stavamo costruendo all’interno delle rispettive città tra i ragazzi di quartieri e gruppi diversi. Insomma, il conflitto con l’esterno fu funzionale alla pacificazione interna. Oggi, a distanza di trent’anni, tutto è cambiato. La rivalità rimane immutata, dura e sentita. Ma pensare di vivere lo stadio e il mondo come lo vivevamo in quel tempo, sarebbe patologico. Sono d’accordo con quel filosofo eretico che ha scritto: “Ad ogni generazione la sua costituzione”.
tratto da “Voce Ribelle”, 14 febbraio 2016, Cosenza-Catanzaro
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