Beach terminal, mercoledì 7 ottobre alla bottega Otra Vez

Mercoledì 7 ottobre alle 18.30, nella bottega Otra Vez in via Mario Mari n° 12, si parlerà del mio viaggio a piedi lungo il Tirreno cosentino, realizzato nello scorso agosto. Mi affiancherà l’ottimo giornalista Alfredo Sprovieri.
Travestito da ambulante rumeno, ho camminato per giorni e notti sulle spiagge della costa tirrenica cosentina, la più cementificata d’Italia. Sul mio blog inviatodanessuno.it è riportato il diario del viaggio, intitolato “beach terminal”. Così ho costruito un’inchiesta che ha provato a descrivere la situazione sociale dei numerosi centri urbani del Tirreno calabrese nord occidentale, lo stato di salute del mare, il rapporto tra le popolazioni locali e i migranti che vivono questi luoghi o li attraversano. Fondamentali sono stati i numerosi articoli scritti negli ultimi anni insieme a Silvio Messinetti, pubblicati da “il manifesto”, incentrati sul tema prevalente dell’aggressione neoliberista ai beni comuni ed alle risorse naturali di questo angolo di Mezzogiorno.
Volevo che a raccontare tutto lo scempio combinato in circa 50 anni dalla locale borghesia cementifera fosse un viandante che sopporta un livello ben più alto di sofferenza: l’ambulante, appunto. Avvicinandomi ai bagnanti che incrociavo sotto gli ombrelloni, speravo che mi guardassero dall’alto. Caso mai avrei svelato poi la mia identità all’improvviso, dopo un primo approccio informale. Tale punto di vista mi avrebbe consentito di osservare tutto dal basso. E nei miei interlocutori si sarebbe creato un empatico effetto di estraniamento. Non capita tutti i giorni di trattare con un ambulante il prezzo di una collanina o di un salvagente, e scoprire che in realtà si tratta di un finto straniero, addirittura di un “connazionale”.
In parte è andata davvero così. Eppure, dopo aver percorso solo poche centinaia di metri, mi sono subito reso conto che qualcosa di imprevedibile stava succedendo: la mia non era una semplice condizione di inferiorità rispetto agli altri, bensì ero diventato impalpabile, immateriale, invisibile, quasi un sasso tra gli infiniti conficcati nella sabbia! Potevo sfidare la complessa prossemica che regola le distanze interpersonali del popolo delle spiagge, spingermi fino a pochi centimetri dai corpi abbrustoliti, senza che nessuno si accorgesse della mia presenza, nonostante offrissi loro aquiloni, braccialetti, collanine e ciambelle galleggianti. I migranti che espongono mercanzie, sono circondati da indifferenza, diffidenza, a volte da malcelata xenofobia, raramente da manifestazioni di cordialità.
Allora transitavo trasparente in mezzo agli ombrelloni, origliavo, potevo avvicinarmi indisturbato alle persone. Coglievo tutta la profondità dei dialoghi estivi: “Il Milan prende Balotelli?”, “Quest’anno l’anticiclone delle Azzorre è tornato”, “Non ci sono più le creme solari di una volta”, “La pizza di ieri sera m’è rimasta sullo stomaco”. Quasi mai ho incontrato ostilità. In Calabria non ci sono i check point anti-ambulanti, auspicati dai lugubri esponenti delle varie destre italiane. Il proprietario di un lido a Diamante, una delle località turistiche più frequentate della provincia di Cosenza, ha persino destinato un ombrellone all’accoglienza, riservato ai migranti, con tanto di sedia a sdraio e rinfresco.
Comunque mi sono chiesto come mai, in questi giorni di viaggio, quasi nessuno m’abbia dato del “Vu cumprà”, nonostante la verosimiglianza del mio camuffamento. Forse perché è consuetudine assegnare questo soprannome ai nordafricani, non ai rumeni. Dai miei fraterni amici rom rumeni, deportati nella tendopoli di Cosenza, in tanti anni, oltre alle frasi fondamentali della loro lingua, mi sono divertito a imparare soprattutto espressioni forti, perlopiù parolacce intraducibili. Che sono tornate utili in questo viaggio. Ogni tanto, nella conversazione con i bagnanti, le pronunciavo tra i denti, rivolgendo gli occhi al cielo in segno di preghiera. E quelli, pensando che mi stessi appellando a qualche Dio gitano, smettevano di tirare sul prezzo, quasi commossi. Una volta una signora dall’accento romano s’è fatta troppo insistente nel pressing. Voleva a tutti i costi che le cedessi un aquilone per 50 centesimi. Quando è arrivata a strattonarmi, non ce l’ho fatta più e le ho mormorato: “Signora, si calmi, guardi che sono un giornalista!” L’ho vista impallidire fino a perdere l’abbronzatura in pochi istanti. Ed è stata lei, a quel punto, a chiedermi: “Come mai te sei messo a fa’ er vu cumprà?” Il sistema più efficace per animalizzare un gruppo umano, mummificarlo, oggettivarlo, consiste nell’identificarlo con una frase o una parola che quel popolo pronuncia spesso per necessità. Pare che l’espressione “barbari” sia l’esito dello sfottò degli antichi greci nei confronti del “bar…bar…bar…” affiorante dall’accento dei popoli a loro ostili. Affibbiare un nome speculare a un singolo essere vivente, animale o persona che sia, a volte può risultare anche simpatico. Tanti gatti si chiamano “Miao” e tanti cani “Bau”. Ma se applicato sui popoli, questo meccanismo di attribuzione di un nomignolo collettivo, cristallizza una vena di pungente razzismo.
Gli ambulanti che “navigano” sulla sabbia calabrese a 40 gradi, sono colorati sassi di vetro umano, levigati dalla fatica, prima ancora che dal mare. Ossi di seppia umana, provengono dai quattro angoli del pianeta. I rom rumeni si riforniscono tutte le mattine a Lamezia, in un grosso hub cinese delle chincaglierie. I nordafricani prendono le mercanzie a Napoli. Indiani e pakistani hanno circuiti autonomi, vivono costipati in monolocali a Fuscaldo e Scalea. Nessuno guadagna in media più di venti euro al giorno. Quando scoprono che non sono uno di loro, in principio mi guardano con diffidenza. Ma poi si aprono, pongono domande, raccontano delle loro famiglie lasciate a casa. Con una comitiva di indiani faccio amicizia. Pranziamo insieme, appollaiati in cerchio, a gambe incrociate, all’ombra di un parco pubblico. “E cosa scrivi in tuo diario? Parli solo di noi?”, mi chiede il più anziano. Gli spiego che voglio raccontare le cause del mare malato, coperto a giorni alterni da strisce oleose provenienti da depuratori malfunzionanti, scarichi abusivi e torrenti inquinati da silos e porcilaie. È un mare orfano della posidonia, la preziosa pianta acquatica che lo riforniva di ossigeno, sradicata dalla pesca a strascico e dai dissennati interventi contro il fenomeno dell’erosione. Quattordici milioni di euro sperperati lungo la costa tirrenica cosentina per realizzare improbabili interventi di contenimento del mare che avanza, ormai privo del freno naturale un tempo fornito dai torrenti derubati di milioni di metri cubi di sabbia utilizzata per costruire alberghi e case a pochi metri dalla battigia. “E a te chi ha raccontato queste cose?”, incalza uno degli indiani porgendomi una fetta di pesca appena sbucciata. Accendo il netbook che porto nella sacca a tracolla e gli mostro alcune delle interviste che ho realizzato negli ultimi mesi. Ho sentito ambientalisti, geologi, procuratori, biologi marini, gestori di lidi, scrittori, operatori culturali, qualche amministratore. Imprescindibili i libri di scrittori tirrenici scomodi: Francesco Cirillo, Mauro Minervino, Angelo Pagliaro. Tutti segnalano la spietatezza con cui hanno agito i devastatori, spesso coperti da sindaci corrotti. Non hanno esitato a rimuovere siti archeologici, deviare torrenti, violentare paesaggi. E a nessuno è venuto in mente di realizzare opere di civiltà come le passerelle per consentire ai disabili di arrivare al mare, oppure la messa in sicurezza della Strada Statale 18 che da nord a sud del Tirreno cosentino ogni mese ammazza una quantità astronomica di automobilisti.
Il gruppo di amici indiani si congeda stringendomi la mano, nell’ultimo giorno del mio viaggio. Rimango solo, a terra, un po’ sconsolato. Sul netbook restano aperti un file e una cartella. Nel primo sono impressi tre appunti intorno ai quali si è sviluppato l’intero diario viaggiante: “racconto a più livelli, scrittura collettiva, long form”. La cartella contiene le interviste alle associazioni e ai collettivi che a Longobardi, Cleto, Paola, Cetraro e Scalea costruiscono socialità, cooperazione, cultura dell’accoglienza, recupero della memoria collettiva, esercizio dei beni comuni. Ce ne sono altre decine, nei centri limitrofi, che per esigenze di tempo non sono riuscito a raggiungere. Sospiro. Il Tirreno cosentino forse si può ancora salvare.
Claudio Dionesalvi

No Comments Yet.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *