Da Coessenza, un saggio mette in luce i danni della privatizzazione dei beni comuni nel Sud. La presenza capillare della delinquenza organizzata in molte regioni del Mezzogiorno d’Italia costituisce una delle cause principali del suo degrado economico-sociale, ma le organizzazioni criminali non sono le sole responsabili delle tristi condizioni in cui versa il territorio meridionale in generale e, in particolare, quello calabrese. Il modello neoliberista ha indotto molte amministrazioni locali a privatizzare la fornitura dei servizi pubblici essenziali; ciò, però, non ne ha migliorato l’erogazione, anzi ha solo provocato un aggravio delle spese per i cittadini e lauti profitti per i gestori privati. Nell’ultimo ventennio anche il territorio calabrese è stato investito dalle liberalizzazioni “selvagge” che hanno comportato la cessione dell’esercizio dei servizi idrici, dello smaltimento dei rifiuti e della produzione di energia elettrica a potenti imprese multinazionali (A2a, Enel, Eni, Erg, Impregilo, Terna, Veolia). I cronisti calabresi Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti hanno recentemente dato alle stampe il saggio Al di là della mala. Quando la ’ndrangheta c’entra poco e niente (Coessenza, pp. 144, € 10,00), nel quale denunciano le speculazioni finanziarie e i disastri ambientali collegati alla gestione privata dei beni comuni. Il volume raccoglie alcuni articoli pubblicati dai due giornalisti sul quotidiano il manifesto dal 2009 al 2013 ed è corredato da sedici foto che testimoniano le lotte dei movimenti ambientalisti e dei lavoratori calabresi, articolandosi attraverso cinque sezioni dai titoli emblematici: L’acqua, L’aria, La terra, Il sangue, La merda. La contaminazione delle acque Dionesalvi e Messinetti segnalano alcuni casi, assai eclatanti, di inquinamento idrico, che si sono registrati nel territorio calabrese. Nei paraggi del fiume Oliva, che scorre presso Amantea, gli organi inquirenti hanno rilevato la presenza di circa 140 mila metri cubi di scorie industriali interrate, che hanno inquinato l’habitat, provocando elevati livelli di radioattività nell’aria e la contaminazione delle falde acquifere. Gli autori si domandano se il disastro ecologico sia ricollegabile «con la vicenda della motonave “Jolly Rosso” spiaggiata il 14 dicembre 1990 a poca distanza dalla foce del fiume Oliva». C’è il sospetto, infatti, che la nave portasse a bordo scorie radioattive, ma i magistrati che hanno svolto le indagini sul caso hanno escluso che ci sia qualche relazione tra il naufragio e lo smaltimento illegale di rifiuti tossici. Dopo accurate analisi chimico-biologiche, anche la fiumara Alaco, che scorre lungo le Serre calabresi, è risultata piena di sostanze tossiche, con percentuali di ferro e manganese al di sopra della norma e un preoccupante inquinamento batteriologico. Secondo molti commentatori, la fiumara è contaminata a causa della diga costruita presso le sue sorgenti, che sarebbe stata riempita «senza fare le dovute bonifiche, senza eliminare la vegetazione presente sul fondo». Nel 2012, la magistratura ha ordinato il sequestro dell’invaso dell’Alaco, mettendo sotto inchiesta alcuni responsabili delle Aziende sanitarie provinciali, vari dirigenti dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Calabria e i vertici della Società per le risorse idriche calabresi che ha fatto costruire la diga. Altri casi di cattiva gestione dell’acqua pubblica sono rappresentati dalle opere di manutenzione dei due maggiori laghi della Sila, l’Ampollino e l’Arvo, affidati alla ditta bresciana A2a, e dall’ultraventennale edificazione della diga sul fiume Melito, i cui lavori sono stati appaltati dal Consorzio di bonifica “Alli Punta di Copanello” prima alla Italstrade, poi alla Astaldi e in seguito alla Safab, venendo infine sospesi. Il parziale svuotamento dell’Ampollino e dell’Arvo e la fluttuazione delle loro acque preoccupano gli ambientalisti perché «mettono a rischio la conservazione dell’habitat silano», mentre la costruzione della diga sul Melito ha comportato uno spreco enorme di denaro pubblico, con costi che per ora si aggirano intorno ai 360 milioni di euro. L’inquinamento dell’aria Ulteriori esempi di scarsa tutela dell’ambiente calabrese giungono dal settore energetico. Dal 1976 è attiva, a Rossano, una centrale termoelettrica, che ha prodotto anidride carbonica, contribuendo a inquinare l’aria che respirano gli abitanti della Sibaritide. Nel 2010 l’Enel ha presentato un controverso piano di riconversione della centrale che mira a produrre energia elettrica su larga scala attraverso l’uso di combustibili polivalenti (carbone, gas, biomasse), scatenando la reazione delle associazioni ambientaliste – tra cui il Wwf – e dei sindaci del comprensorio, che sono riusciti a ottenere dal Ministero dell’Ambiente la temporanea sospensione del megaprogetto. Gli ecologisti, invece, non hanno potuto impedire la costruzione dell’elettrodotto Laino-Feroleto-Rizziconi, di proprietà della Terna, che attraversa alcune frazioni di Montalto Uffugo senza rispettare gli standard di sicurezza previsti dalla normativa vigente. I fili dell’alta tensione, infatti, sono posizionati «a meno di 50 metri lineari dalle abitazioni in presenza di un continuo ed insopportabile disturbo acustico», esponendo i residenti al rischio dell’insorgenza di tumori e di leucemie. Anche l’energia eolica, pur appartenendo alle fonti rinnovabili non inquinanti, rischia di diventare in Calabria motivo di lauti profitti, senza ricadute particolarmente positive sui consumi e sulla vita della popolazione. Sono state istruite varie inchieste giudiziarie sui costi esorbitanti degli impianti eolici e sulle “mazzette” pagate per fabbricarli, come la presunta maxitangente «versata a funzionari e politici della regione Calabria per l’avviamento di una centrale a Isola di Capo Rizzuto», che la multinazionale Erg avrebbe costruito senza tener conto dei vincoli paesaggistici. I danni al territorio e alla salute Dionesalvi e Messinetti mettono in risalto un’altra nota dolente della Calabria: l’aumento delle patologie neoplastiche tra la popolazione residente. Una iattura provocata da diversi fattori concomitanti: le pessime condizioni di lavoro, il moltiplicarsi delle discariche di scorie nocive, le emissioni incontrollate di sostanze tossiche. Gli esempi peggiori provengono da Crotone, dove sono esplosi gli scandali della Kroton Gres 2000 e della ex Pertusola Sud, e da Praia a Mare, dove i dirigenti di una fabbrica tessile, la Marlane, sono stati inquisiti per «omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e disastro ambientale». La Kroton Gres 2000 – una delle maggiori imprese produttrici di piastrelle di ceramica di proprietà dell’industriale modenese Roberto Spiaggiari – nel 2010 è stata posta sotto sequestro dal Tribunale di Crotone con ipotesi di reato che vanno «dalla discarica abusiva all’avvelenamento delle acque e al disastro ambientale». L’ex Pertusola Sud – una delle prime aziende metallurgiche del Mezzogiorno, costruita nel 1932 – ha cessato la produzione nel 1999; nel 2008, però, la Procura di Crotone ha aperto un’inchiesta, ordinando il sequestro di alcuni terreni nei comuni di Isola di Capo Rizzuto, Crotone e Cutro, dove sarebbero state realizzate delle discariche abusive di materiale di scarto industriale. Si sospetta, inoltre, che alcune imprese edili abbiano fatto uso di conglomerato idraulico catalizzato – una miscela prodotta con le scorie del forno “cubilot” della ex Pertusola Sud e la loppa d’altoforno proveniente dall’Ilva di Taranto – nella costruzione di case, scuole e strade. Il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Crotone, tuttavia, ha prosciolto 45 indagati (tra i quali dirigenti ministeriali, industriali e politici), sostenendo che «non c’è stato né disastro ambientale, né avvelenamento delle acque, né smaltimento illecito dei rifiuti», sebbene le analisi mediche condotte su un campione di 290 alunni crotonesi abbiano rilevato «un incremento significativo delle concentrazioni sieriche del nichel, dello zinco, del cadmio, dell’uranio e del piombo». Oltre 50 operai – impiegati a Praia a Mare presso l’azienda tessile Marlane, di proprietà della famiglia Marzotto (chiusa nel 2004) – si sono ammalati di cancro e sono successivamente deceduti, forse perché si sono esposti senza alcuna protezione a «vapori tossici e irrespirabili costituiti da prodotti coloranti trattati ad elevate temperature all’interno dei bollitori». Anche l’ecosistema della Sila è in pericolo, dato che i boschi vengono costantemente sottoposti a tagli indiscriminati per rifornire di legna – tra l’altro – gli impianti di combustione di biomasse (recentemente sorti a Crotone, Cutro, Rende e Strongoli), che rischiano di essere utilizzati soprattutto come nuovi inceneritori per l’immondizia, altamente inquinanti. Il business dell’immondizia La parte conclusiva di Al di là della mala è dedicato all’emergenza rifiuti, che da anni sta martellando il territorio calabrese. Molte amministrazioni locali, anziché orientarsi seriamente verso la raccolta differenziata, preferiscono aprire nuove discariche per lo smaltimento della spazzatura, ma così «devastano interi territori e appestano esasperate popolazioni». Sono pochi i comuni virtuosi che provvedono a realizzare l’intero ciclo della raccolta differenziata: tra questi si segnala Saracena, un piccolo centro del Cosentino, che in tre anni è passato dal 50% (2010) al 65% (2013) di riciclaggio della spazzatura. Le ragioni recondite di tanta incuria vanno ricercate nel cosiddetto “business dell’immondizia” che coinvolge società miste e private, le quali hanno interesse a «progettare inceneritori e aprire o ampliare discariche» a fini speculativi, limitando la raccolta differenziata. Dionesalvi e Messinetti trattano nel libro anche altri argomenti – come la triste condizione degli immigrati clandestini residenti in Calabria, la controversa progettazione di una metropolitana tra Cosenza e Rende, l’ipotesi di un aeroporto da realizzare a Sibari, la lotta dei lavoratori calabresi della Phonemedia e le tesi del linguista John Trumper intorno alle vere origini della ’ndrangheta – per l’approfondimento dei quali rimandiamo alla lettura del volume. Si tratta, in conclusione, di un saggio assai istruttivo di cui tutti i calabresi dovrebbero prendere visione per rendersi conto fino in fondo della grave situazione in cui versa la loro terra e dell’urgenza di porre rimedio al profondo degrado ambientale, che tuona come una condanna inappellabile per chi in questi anni non ha saputo amministrare i servizi pubblici, favorendo così le speculazioni di capitalisti rapaci e senza scrupoli, incuranti del bene comune.
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