Gulala Salih: «È il nostro destino quello di subire l’ingiustizia in patria e ovunque»

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In questi drammatici nove mesi, diverse persone si sono strette intorno all’attivista e regista teatrale curda Maysoon Majidi, reclusa in Calabria e sotto processo a Crotone con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, andando a trovarla in carcere, scrivendo e inviandole lettere, mantenendo contatti con il suo legale ed i suoi familiari. Tra costoro c’è la scrittrice Gulala Salih, rappresentante del Kurdistan di Save the Childreen Italia e presidente dell’Unione Donne Italiane e Kurde.
Gulala, come sta Maysoon?
Dopo un’attesa abbastanza lunga, pochi giorni fa finalmente ho incontrato la mia connazionale, la compagna impegnata nella lotta per i diritti del Kurdistan e delle donne, l’attivista Maysoon Majidi. Come kurda, attivista e semplicemente come donna, sento profondamente la tragica assurdità del suo caso. Maysoon, dallo schermo del collegamento in video chiamata dal carcere, è riuscita a trasmettermi ed a farmi capire e toccare il suo stato di malessere, il suo dolore e l’ingiustizia che sta subendo.
Cosa le ha detto?
Riporto le sue parole disperate, quelle che posso riferire: “Incontro e sento diverse persone ma nessuno ha fatto niente per me, ricevo delle lettere ma non ho risposto a nessuno, sono confusa e non capisco più niente”.
E lei cosa le ha risposto?
Ho assicurato Maysoon che lei è in carcere ma non è sola: oltre alle persone che può incontrare, fuori dal cancello ci sono tante persone comuni, attiviste e tante associazioni per la difesa dei diritti impegnate per la sua liberazione.
Cosa si prova quando si parla al telefono con una persona prigioniera?
Con la telefonata il tempo correva più veloce del solito; anche se avevo preparato un elenco di cose da chiedere e da comunicare a Maysoon, i 41 minuti non sono bastati per dirci tutto, per fare le tante domande, per avere tutte le risposte, e per consegnare le raccomandazioni del padre in Iran e dei due zii in diaspora in Germania.
Tra Maysoon e lei c’è la condivisione di una lotta.
Sì, sono addolorata per Maysoon e ora ancor di più dopo la nostra conversazione; sono triste per quello che ha subìto nella patria colonizzata, sulla barca della speranza ed ora nel carcere di un paese libero e democratico.
È un amaro destino, non solo per Maysoon.
Sì, è il destino delle donne kurde, quello di subire l’ingiustizia in patria ed ovunque. Che colpa ha Maysoon per essere in carcere? È perseguitata dal regime iraniano per essere kurda, per essere difensore dei diritti; l’hanno perseguitata anche nel piccolo territorio libero del Kurdistan iracheno.
Mimmo Lucano, recatosi qualche giorno fa a incontrarla nel carcere di Reggio Calabria, ha affermato: “Hanno bisogno di qualcuno su cui costruire questo teorema accusatorio per giustificare azioni che non sono degne della giustizia”. 
È vero: Maysoon è reclusa ed accusata di essere collaboratrice degli scafisti, hanno trovato il capro espiatorio per “dimostrare” che stanno combattendo l’immigrazione clandestina. Non servono le sue raccomandazioni per sentirmi sua sorella. Maysoon è per me davvero una persona cara; sono certa più che mai della sua innocenza. È una compagna, un’attivista che ha i suoi valori e principi. Non può assolutamente essere una scafista. Nel mio piccolo e con i miei limiti farò quello che posso e manterrò la promessa, arrivata da anni in questa terra libera, l’Italia, di essere la voce dei perseguitati. Sarò voce anche per Maysoon, la voce che io non ho mai avuto.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 4 settembre 2024

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