In Italia come in Iran: liberare Maysoon

Come ti chiami, dove sei nata? Aspettate, vorrei spiegarvi. Non preoccuparti, vieni con noi. Clack, le manette. Sarà stata distrazione o negligenza. I mediatori culturali e gli interpreti sono una lotteria, devi trovare quello giusto. Maysoon Majidi è stata sfortunata.
Nessuno le ha dato il tempo di parlare, dopo essere sbarcata il 31 dicembre scorso nei pressi di Crotone, al termine di un viaggio durato quattro giorni. Da sei mesi è detenuta nel carcere di Castrovillari, in Calabria, con l’accusa di aver pilotato la barca che ha trasportato lei ed altri disperati dalla Turchia.
MAYSOON è curda, ha studiato teatro e sociologia a Teheran. Disegnatrice, videomaker, nei mesi di detenzione ha imparato a scrivere in italiano. Negli anni scorsi è stata premiata 33 volte per i suoi reportage. Ci vuole una robusta dose di idiozia o malafede per accusarla di essere una «scafista». È il concetto stesso a essere irreale nel 2024.
Solo la narrazione acida, distorsiva e «a buon mercato», costruita dalle destre in questi ultimi due anni, poteva vomitare il folk devil dello scafista. Tale poteva essere trenta anni fa chi conduceva nell’Adriatico imbarcazioni partite dall’Albania e territori limitrofi, cariche di persone migranti. In cambio di congrue ricompense, traghettavano i «dannati», li scaricavano e tornavano indietro. Oggi nessuno si presterebbe a compiere un’impresa così priva di convenienza, senza ritorno. È vero, sulle barche dei disperati possono trovarsi soggetti costretti a collaborare con chi ha organizzato i viaggi. Ma non Maysoon che quando è sbarcata aveva 150 euro in tasca!
Parlava troppo, durante la traversata, questa attivista 27enne che ha avuto duri scontri verbali con quelli che poi in un primo momento la avrebbero indicata come «scafista» ai poliziotti impegnati nella caccia al «capitano». Senza confermare le presunte accuse, queste persone si sono poi dileguate.
Ora vivono altrove e hanno paura di tornare in Italia per testimoniare l’innocenza di Maysoon nelle aule di giustizia. A bordo c’era pure chi aveva una cabina tutta per sé. E qualcuno occupava una poltrona, mentre la maggioranza, compreso un neonato di un mese, dormiva a terra o era compressa nella stiva.
Non ha esitato a schierarsi dalla parte di chi viaggiava in basso Maysoon che da ragazzina ha militato per sette anni nel Komala, l’organizzazione curda che ha combattuto contro il potere fascio-religioso iraniano. Forse anche per questa sua temerarietà, qualcuno ha deciso di fargliela pagare.
BISOGNAVA trovarlo a tutti i costi, lo scafista. E per ammanettarla è bastato che qualcuno mormorasse: «Manteneva la calma a bordo», «distribuiva cibo e acqua tra gli altri passeggeri», «ha girato un video, appena avvistate le coste italiane, e lo ha inviato a chissà chi». Potenza immaginifica di certi inquirenti: non ci voleva il tenente Colombo per scoprire che alla partenza dalla Turchia i trafficanti – quelli veri, che restano a terra – avevano sequestrato a tutti gli smartphone, affidandoli a uno di coloro che poi hanno rivolto lo sguardo infame contro di lei.
Alla vista della sponda italiana, Maysoon e gli altri profughi hanno riottenuto l’uso del cellulare. Le è stato restituito per consentirle di comunicare alla famiglia che poteva (e doveva) versare alla malavita turca la seconda rata degli 8.500 dollari pagati per il viaggio. Un «biglietto» costato il doppio, perché prima della partenza i soldi le erano stati rubati.
Ne raccontano anche la bellezza, i parlamentari che hanno incontrato Maysoon nel suo calvario italiano degli ultimi mesi: occhi neri e profondi, naso delicato, labbra disegnate, riesce ancora a sorridere amara, mentre narra la sua storia kafkiana. I legali riferiscono che è smagrita da uno sciopero della fame a tre riprese e che, come la maggior parte dei detenuti, soffre di attacchi d’ansia e panico, ma rifiuta i farmaci, vuole restare presente a se stessa.
PER LA LEGGE iraniana, non è grave uccidere una donna: equivale a dare uno schiaffetto a un uomo. Lei è scappata dall’Iran per approdare in Italia, dove una giudice donna la imprigiona. Maysoon, che da reporter documentò la condizione dei curdi fuggiti in Iraq dall’Iran, nella terra di Cesare Beccaria oggi vive la loro medesima, orribile, condizione.
Adesso però in gioco è la credibilità stessa del sistema giudiziario. Venerdì il tribunale di Crotone ha di nuovo respinto la richiesta di sostituzione della misura cautelare. Maysoon resta in carcere. Ma se c’è un giudice in Calabria che vuole dimostrare che i tribunali italiani giudicano ancora applicando i principi costituzionali, liberi Maysoon.
Claudio Dionesalvi

il manifesto, 9 giugno 2024

No Comments Yet.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *