L’Aula Magna “Mario Dionesalvi”

“Preside, la scuola è occupata. Lei e i suoi professori siete pregati di uscire fuori da quest’aula magna”. Qualcuno doveva assumersi la responsabilità di pronunciare quella solenne frase. E non vedevo l’ora di farlo io. Era la metà degli anni ottanta. Si viveva una mattinata di tensione nel liceo scientifico “Scorza”, in via Popilia. L’edificio scolastico era fatiscente; da Roma incombeva l’ennesima “riforma” aziendalista, calata dal ministro di turno. Seguendo cicli regolari, l’ondata studentesca tornava a riempire le piazze, imbambolata dalla repressione che aveva spento i conflitti sociali e politici del decennio precedente. Tra di noi c’erano pure tanti “ragazzi di oggi”, di erosramazzottiana ispirazione, un po’ goffi ma belli almeno quanto il loro gellato cantore. A tratti nel mondo studentesco si gonfiava qualche venatura riottosa, superstite del ’77, presaga di quegli anni novanta che avrebbero generato nuove insorgenze. L’assemblea permanente dello “Scorza” aveva appena deliberato l’occupazione. E poteva accadere che un figlio-studente intimasse al padre-preside di abbandonare i locali della scuola.
Non dimenticherò mai il volto di mio padre, quando gli dissi che doveva consegnarci le chiavi e lasciare per qualche giorno la sua presidenza. Mi fissò con uno sguardo tra il malinconico e l’impotente, abituato com’era a convincere gli studenti, discutere con loro, farli ragionare. Poi andò via. E ci fu scontro fra lui e mio fratello, quando tornò a casa.
“Oggi Claudio mi ha umiliato davanti a tutta la scuola. E tu, Franco, dovresti parlarci. Sei responsabile. Se non gli avessi messo in testa le tue idee…”.
“Io non gli ho messo in testa un bel niente. Mio fratello ha una mente tutta sua per ragionare. La colpa è tua e di mamma. Ve l’avevo detto che non dovevate iscriverlo nella scuola in cui sei preside. Lui non ci voleva venire. Adesso farebbe di tutto per dimostrare che ha una personalità autonoma dalla tua, e che non è un privilegiato”.
“Sei sempre dalla sua parte, tu”.
Stava parlando con una porta chiusa, sbattuta alle proprie spalle da mio fratello che in pochi minuti raggiunse la scuola, si presentò all’ingresso del liceo, con un sorriso complice mi consegnò il suo sacco a pelo, una soppressata e un po’ di pane che si era fatto elargire da mia zia. Per una settimana abitai nell’aula magna. I collaboratori scolastici mi adottarono. Per la prima volta la digos mi identificò, insieme agli altri occupanti: “Damme ‘o documento ca si no poi t’allamiente, ‘o documento tu me l’ha da’”.
Il vicepreside, il mitico professore Armando Manna, mi chiamò in disparte: “Questa volta non mi sei piaciuto”. Io e lui ci volevamo un bene dell’anima. Al termine dell’occupazione, Manna volle assistere di persona alla riconciliazione con mio padre. In realtà, non avevamo litigato. Papà non era “di sinistra”, eppure sapeva che tutto sommato io e gli altri occupanti avevamo ragione. Era un cattolico fervente, di quel cristianesimo che si indigna dinanzi alle ingiustizie sociali. Ogni mattina entrava nelle aule e faceva lezione. Danzava con gli studenti, era sempre con loro nei viaggi d’istruzione, possedeva una formidabile capacità oratoria. Aveva maturato una preparazione classica di spessore immenso. Ripeteva spesso che “gli alunni non sono numeri in un registro” e sebbene fosse molto rispettoso delle leggi, precisava che “le regole a volte servono per quelli che non sanno regolarsi”. Nel 1986 fu ucciso dalla nostra malattia di famiglia, e dalla malasanità: i medici impiegarono mesi per diagnosticargli un tumore. Dopo un primo intervento chirurgico, non fecero nulla per prevenire l’embolo che si scatenò nel suo sistema circolatorio quando gli chiesero di alzarsi dal lettino d’ospedale e recarsi con le sue gambe fino all’ambulatorio del reparto, per una banale medicazione.
Mi ripeto spesso che se non fossi passato, in modo così repentino e traumatico, dal complesso di avere un padre preside nella mia scuola, al dolore lancinante di non averlo più in vita, forse poi non sarei divenuto ultrà negli stadi e nelle lotte sociali. Avverti il bisogno di andare al di là di te stesso e di qualsiasi limite, quando da adolescente devi sempre superare qualcuno o qualcosa, e all’improvviso non hai più chi ti protegge.
Dopo la sua morte, trovai tanta solidarietà, ma conobbi anche la cinica ipocrisia del mondo borghese: ci fu chi mi protesse e chi finalmente poté vendicarsi, additandomi come uno scapestrato. Il giorno prima, ero un figlio di papà. Il giorno dopo, un papà non ce l’avevo più ed ero figlio di una madre impegnata a parare i calci di rigore che provocavo. Per fortuna ebbi altre figure paterne: un fratello meraviglioso e tanti padri nella strada e allo stadio.
Era davvero un altro mondo, quello. Meno bacchettone e perbenista del presente. Nel giro di poco tempo, mi innamorai di Loredana. Tutte le mattine, prima di entrare a scuola, l’aspettavo sotto l’inferriata dei binari dismessi. Scavalcava il muretto, rigorosamente in minigonna. Ci imboscavamo sotto un olivastro. Il mio prof d’inglese, passando con la sua 500, ci urlava di “usare sempre l’ombrello”. Ho avuto due compagni di banco boni e geniali, Manolo e Mimmo. Il primo traduceva il latino senza dizionario, cantava a squarciagola Jim Morrison. Il secondo, come il primo, era corteggiatissimo e declamava le strofe di Vasco. Nei corridoi della scuola incontravo spesso una ragazza più grande di me; mi abbracciava, aveva un sorriso dolcissimo. Si chiamava Roberta Lanzino.
E poi c’era quell’aula magna. Lì ho gioito, dormito, discusso, giocato, praticato la democrazia dal basso. Adesso che l’aula è intitolata al preside Mario Dionesalvi, è lui, è mio padre che la occupa. In un certo senso, dunque, si è preso la sua amorevole rivincita verso il figliolo riottoso. In occasione della riapertura dell’aula magna, qualche giorno fa, sono stato nel liceo “Scorza” insieme a mia figlia Maya. Grazie anche alla sensibilità e all’amore per la memoria civile di chi ancora, a distanza di 40 anni, ricorda mio padre, lunedì scorso nell’aula magna io e lui siamo tornati a scontrarci. In un abbraccio infinito.
Claudio Dionesalvi

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