Quel “buuu” che emerge dal big bang del calcio

(Reggini a Cosenza all’inizio degli anni zero)
“Nell’urlo eccitato che accoglie l’annientamento simbolico dell’Altro vibra l’onda limacciosa di secoli di distruzioni sulle quali si è consolidata la cultura che il rito del calcio difende e diffonde”. Aveva capito tutto nel 1984 Renato Curcio, quando nel suo “WKHY”, edito da Fatamorgana, tratteggiava con pennellate secche l’intima natura identitaria del football, e intravedeva l’imminente transizione verso il calcio moderno. Pochi anni prima di lui, lo zoologo inglese Desmond Morris aveva già inquadrato i rituali del Dio pallone nello studio dei comportamenti animali e delle pratiche tribali, forse ispirato dagli ominidi “moonwatch” che si scannano per accaparrarsi una pozza d’acqua nel prologo di “2001: Odissea nello spazio” del maestro Kubrick.
Non serviranno a nulla le lamentazioni. È destinato a propagarsi all’infinito l’effetto emulazione scaturito dall’episodio dei cori razzisti lanciati dagli ultras di Busto Arsizio contro il giocatore di colore Boateng, nell’amichevole tra la loro squadra, la Pro Patria, e il Milan. Quando sugli spalti ci sono supporters d’ispirazione leghista o neofascista, nulla accade per caso. E in questo campo, la provincia di Varese e tante altre piazze pallonare lombarde, negli ultimi due decenni, hanno prodotto le manifestazioni peggiori. Chissà quali rimedi propone l’assessore leghista allo Sport ed alle Politiche Giovanili del comune di Corbetta, Riccardo Grittini, identificato tra i presunti responsabili dei cori razzisti che hanno portato alla sospensione della partita di Busto Arsizio.
Ci sono malattie che si propagano meglio nella sporcizia; altre pare si diffondano con maggiore virulenza proprio nell’estrema pulizia. Da sempre il gioco del pallone è terreno fertile per il morbo razzista. Qui l’ossimoro non è una forzatura: il calcio moderno è al tempo stesso sudicio e sterile. Al di là della retorica del fair play, di per sé è uno sport che si presta alla xenofobia: non c’è possibilità di identificazione con i propri colori sociali, senza ostracismo verso quelli indossati dal diverso. A questo peccato originale si sono aggiunte le leggi speciali bipartisan applicate in Italia dal ministro Maroni, che hanno sterilizzato gli stadi di calcio, epurandoli da presenze critiche. Le curve antirazziste per tradizione e vocazione sono state aggredite, represse, marginalizzate, con la scusa della prevenzione del teppismo. Ne hanno approfittato le organizzazioni dell’estrema destra radicale: oggi lanciare un “buuu” razzista ha maggiori probabilità di attecchire, per almeno due motivazioni. Perché storicamente la goliardia e lo sfottò si basano sulle caratteristiche fisiche dell’avversario, quindi il tifoso “normale” è portato a riprendere e scandire qualsiasi coro, a volte ingenuamente, lasciandosi trasportare da una forma di risonanza che esiste in ogni comunità umana. E soprattutto perché in una sedicente curva “apolitica” – come amano definirsi le peggiori tifoserie di estrema destra – non c’è nessuno in grado di indignarsi e contrastare gli slogan xenofobi. Qualsiasi atto repressivo nei confronti di tali comportamenti, serve solo a glorificarli. Chi espone svastiche e croci celtiche o lancia slogan contro i giocatori di colore, se colpito da DASPO (divieto di assistere a competizioni sportive), agli occhi dei propri camerati diviene un martire punito per le proprie “opinioni” (?). In ogni caso, dai vertici delle istituzioni calcistiche e politiche non arriverà mai la soluzione del problema. Basti pensare alle dichiarazioni del presidente della FIFA, Blatter, e della ministra dell’Interno Cancellieri. Pur comprendendo l’atto di protesta compiuto da Boateng che ha abbandonato il campo, si sono precipitati ad auspicare che un simile gesto non avvenga mai più. Altrimenti lo show rischia di non poter continuare.
In Italia non sono mancate, nel corso del tempo, vivaci esperienze di tifoserie organizzate che hanno fatto dell’antirazzismo un tratto costitutivo della loro storia. Gli ultrà di Venezia, Ancona, Cosenza e tanti altri piccoli o grandi centri hanno dato vita a tornei e raduni per affermare un modo “contro”,  interculturale, di essere curvaioli. Tali esperimenti sono stati sempre ricambiati con attacchi polizieschi e, in alcuni casi, tentativi di infiltrazioni neofasciste. Di dimensione europea sono i Mondiali Antirazzisti giunti alla XVI edizione, promossi in Emilia Romagna dall’organizzazione Progetto Ultrà, in collaborazione con l’UISP e col network internazionale FARE. Non mancano iniziative analoghe in altri Paesi. La BAFF è operativa in Germania e la RSRA in Francia e nel Benelux. Tutti consapevoli, come il giovane sociologo-ultrà Ettore Covello, prematuramente scomparso pochi anni fa, che “vi è difficoltà a rendere evidente il problema del razzismo negli stadi, perché c’è una totale mancanza di percezione dell’esistenza del problema, sia da parte delle società e di alcuni atleti, sia da parte della gente comune”.
Claudio Dionesalvi
www.manifestiamo.eu   gennaio 2013

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