Fine dei giochi e dell’identità sociale

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Alle 7 del mattino la camera da letto cominciò a vibrare. Tutto tremava. L’armadio si trasformò in una cassa di risonanza. All’epoca dormivo nella stanza che dà su corso Mazzini, al primo piano.
“Luuupi alé. Luuupi alé. Taratataratataratatà. Lupiiiiii aléééééé, lupu du’ core e di’ la vita mia si’ tuuu”… quell’inno rimbombava dappertutto. Poi, il trillo di citofono, e subito la voce di mia madre: “Clà, c’è Piero. Dice che alla tua età dormi troppo. Ti aspetta sotto”.
Neanche mi lavai. Il caffè tracannato alla “Fantozzi” e mi precipitai fuori. In fondo alle scale, dietro il portone, la sagoma enorme di Carminuzzo “Bulldozer” copriva in larghezza tutta la vetrata. Sul marciapiede, mani in tasca e immancabile sorrisetto di sfottò, Piero: “Su’ vinticik’aani k’aspettamu su jùarnu. Ma ti para ru moment’i’ dorma!?”
In macchina, seduto a fianco a me sul sedile posteriore, Cappìaddru, il principe dei senza-fissa-dimora cosentini. Il cofano alzato, le casse sparate a volume totale, e via. La macchina di Carminuzzo attraversava la città svegliandola. Al passaggio davanti ai bar e nei quartieri, vecchi tifosi, matti e malandrini ci salutavano compiaciuti: “Via lupi via”.
Ventuno anni fa, nel 1988, cominciò così la giornata di Cosenza-Nocerina, quella dei 20mila allo stadio e dei 300 fumogeni rossoblù. La vittoria di un campionato è un evento che ti segna la vita, persino quando sei consapevole che il calcio è una farsa e il risultato della partita forse è stato già scritto. Anche nella tragedia greca il finale si conosceva in anticipo, eppure la gente si commuoveva lo stesso. Oggi il mondo è cambiato. Il pallone pure. Da “oppio dei popoli” a “nettare degli Dei”, da valvola di sfogo a industria televisiva. Ce ne siamo accorti pure a Cosenza. Se vuoi vedere la partita in TV, devi pagare il “dazio” a un’emittente toscana che alterna donnine e pallonate. Se i gruppi ultrà vogliono andare in trasferta, devono comportarsi da Boy Scout, come a scuola: “Fai il bravo, altrimenti non ti facciamo andare in gita”. Per il tifoso, significa che non si può più tifare. Per l’ultrà, che non si può più andare al di là… In poche parole, il gioco è finito, e con esso è morta l’identità sociale di questo sport. Rimangono i soldi, il doping e la retorica di certi cronisti, sempre più monotoni e ripetitivi, nonostante si sforzino di apparire originali coniando neologismi.
Allora, cosa rimane?
Perché godere dei trionfi della nostra squadra?
Braccati da telecamere spia, incanalati  dai tornelli, proviamo a restare aggrappati alle immagini di quel po’ di umanità che in uno stadio si può ancora incontrare.
La signora con la sciarpa al collo, il bimbo che sventola la bandierina sorridente… insomma quella parte di universo che non si pone troppe domande sul mondo reale e che accoglie nella propria domenica una quota si astrazione. Di realismo c’è bisogno soprattutto negli altri sei giorni della settimana.
Forza Lupi, dunque. E un infinito GRAZIE per avere regalato alla nostra meravigliosa città un’altra domenica di sbarazzina allegria. Perché, al di là di ogni considerazione sul calcio, in generale è saggio restare attaccati alla realtà, ma se vogliamo evitare di scegliere la via dell’autodistruzione, è altrettanto importante non perdere il contatto con la fantasia.
Nell’ultimo disco-poesia di Giovanni Lindo Ferretti, forse, la risposta a tante domande sui giorni che stiamo vivendo: “gente che fa buio avanti sera / gente da basto, da bastone, da galera/ risuona la parole / detona / rimbomba in me cassa armonica: far fronte e in marcia / tra timori sgomenti/ e baldanza festante. – Certo le circostanze non sono favorevoli – e quando mai? – bisognerebbe… bisognerebbe niente – bisogna quello che è. BISOGNA IL PRESENTE”.
Claudio Dionesalvi
Cosenza Sport, 18 maggio 2009

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