Beach terminal – quinta e ultima giornata: da Cetraro a Tortora

L’ultima tappa del viaggio è la più lunga. Spezzo il percorso in due giorni effettivi di cammino, saltando interi tratti di costa e servendomi della macchina e di un paio di passaggi.
In questi giorni, molti amici, amiche, compagni e compagne mi hanno posto due domande: perché ti è venuto in mente di compiere un simile viaggio? E perché travestito da ambulante?
La verità è che non ce la facevo più a starmene buttato su una spiaggia a piagnucolare come uno scimmione orinante controvento, schifato dalla sua stessa pipì che gli imbratta la faccia. Volevo raccontare, denunciare, conoscere, rimettere insieme i frammenti di un quadro disaggregato.
Per farlo, dovevo essere invisibile e al tempo stesso straniante. Ne ho parlato spesso con i miei amici rom che adesso vivono confinati nella surreale tendopoli di Vaglio Lise: a parte le eccezioni che per fortuna non mancano, gli italiani cercano di tenersi alla larga dai migranti ambulanti e dalle loro proposte commerciali. Divengono invisibili ai loro occhi. E quando non li scansano, li strapazzano per ottenere sconti improbabili. A volte li offendono. Raramente li accolgono sotto il proprio ombrellone. Nel mio caso, quando non mi ignorano, i bagnanti mi guardano prima dall’alto, poi con sospetto, quindi alla pari appena capiscono che sono un “connazionale”. Alla fine, se svelo la mia identità di giornalista, tradiscono un certo timore reverenziale. In questo gioco di posizioni, spesso riesco a ottenere dall’interlocutore la rottura dei freni inibitori che ormai nelle comunicazioni della vita vera non si riscontra più, essendo confinata soltanto nella dimensione del web 2.0
Al passaggio da Cetraro mi rendo conto di quanto sia improponibile descrivere questo centro tirrenico in poche battute. Più piccola di Amantea e Paola, Cetraro è in realtà molto complessa sul piano sociale. È una repubblica indipendente, gelosa del suo patrimonio storico e culturale, magnetica in occasione delle festività popolari.
In essa ha trovato origine una delle esperienze collettive più interessanti: il Cantiere Sociale d’Identità Santa Lucia. È Franca Maltese a raccontarmela. L’intervista sarebbe più lunga e carica di contenuti, ma dopo giorni di viaggio a 40 gradi e sfidando le intemperie, il mio netbook è esausto e la pennetta di connessione ha quasi esaurito il credito. Costretto a caricarne solo la prima parte, mi riprometto di sbobinarla tutta in seguito:

Un’intensa folata di vento tiepido m’induce a sollevare lo sguardo verso l’ospedale di Cetraro. La commozione rallenta il passo e sospende i pensieri. È qui che ha cessato di battere il cuore di Gigi Marulla, nostro capitano in eterno:
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Gigi avrebbe sposato senza esitazione l’ennesima trovata solidale di un poeta vernacolare che con le sue commedie riesce a suscitare la risata complice e divertita del moderno popolo bruzio: “Canaletta”, al secolo Sergio Crocco:
In pochi minuti raggiungo in macchina un altro luogo di rara fascinazione. Per chiunque abbia militato nei movimenti antagonisti e ambientalisti, Diamante è Francesco Cirillo e Francesco Cirillo è Diamante. A lui non piacciono i loghi. Quindi so che non sarà contento se lo definisco “simbolo”. Nella realtà effettuale, di fatto, Francesco è metà Tirreno; rappresenta la parte intelligente e gioiosa, l’amore per il territorio, la produzione culturale sganciata dal profitto, la conoscenza della bellezza naturale incontaminata. L’altra metà, tutto ciò che si contrappone a Cirillo, che lo minaccia e lo querela, è il lato oscuro del Tirreno, quello che si è svenduto per pochi spiccioli, che divora terra, acqua e aria per defecare ristoranti di plastica, paesaggi tristi, vespai di cemento e rissose discoteche. Cirillo è un simbolo di come le cose potevano andare e purtroppo non sono andate. Fermandomi in un bar ad Acquappesa, uno dei tanti signori attempati che ho incontrato, quando gli ho rivelato d’essere un mediattivista, s’è sfogato. Con le lacrime agli occhi mi ha detto: “Guarda che non siamo tutti stupidi e asserviti. La maggior parte di noi è consapevole d’aver sbagliato. Abbiamo lasciato che ci ammazzassero un sogno, quello di dare una prospettiva ai nostri figli. Non siamo riusciti a salvare i luoghi in cui li abbiamo messi al mondo”.
È chiaro che la scelta di un turismo di massa, mangereccio e ignorante, ha portato soldini solo nelle tasche di pochi. E in compenso ha lasciato il segno:

Oltre alle ville romane già menzionate nella quarta giornata di viaggio, lo sfregio dei territori ha oscurato molte altre antiche strutture:

Nonostante gli invasivi progetti che l’hanno bersagliata negli ultimi anni, Diamante resiste. Si mantiene vivace la bellezza del suo centro storico e del suo mare. Rimane vigoroso il fascino delle persone che la rendono viva:

Archimede, già operaio nella Fiat degli anni settanta, ha col suo mare lo stesso rapporto di autocoscienza che la specie umana ha elaborato nei confronti del cosmo. Esercita la medesima funzione:

Il tratto a nord di Diamante conserva quei duecento metri di canneti e macchia mediterranea tra la Statale e la spiaggia, che preservano la salute del mare. Altrove queste sterpaglie sono state eliminate per lasciare spazio a casermoni in cui stipare voraci villeggianti, con gli effetti devastanti che conosciamo.
Più sud, tra Santa Maria del Cedro e Scalea, la foce del Lao trasporta il ricordo di remote battaglie:

A Scalea depongo le mercanzie e m’intrufolo nel dedalo di negozi. Germana Ciampa, autrice dello “Gnomo Pignomo”, il fumetto ecologista protagonista di una fiaba tenerissima, edita da Coessenza, espone la sua esperienza con i bambini all’interno dell’Ecomuseo:
Di una lotta ambientalista culminata con una vittoria, è stato protagonista a Scalea l’avvocato Marcello Nardi:

Nei pressi della stazione incontro Edoardo Martinelli, un bel pezzo di Don Milani, che scende spesso in Calabria:
Alle porte di Praia si rifà vivo un problema fisico che mi tormenta da tempo. I miei compagni me l’hanno detto diverse volte prima della partenza: “Guarda che per fare l’ambulante ci vuole un fisico notevole”. O forse sto solo somatizzando l’avvicinamento ai luoghi in cui si è verificata una delle vicende più tragiche della storia recente di questi territori. Allora lo stato di malessere psicofisico mi costringe a compiere quest’ultimo tratto in silenzio, sollevandomi con la coscienza. Diverse volte, durante il cammino, ho avvertito il bisogno di muovermi muto nel ricordo. Di solito, invece, nel commemorare le figure care scomparse, prevale il bisogno di parlare. Non ho conosciuto personalmente gli operai della Marlane. Ma grazie soprattutto a Francesco Cirillo e a un loro collega sopravvissuto, Luigi Pacchiano, ne ho conosciuto la storia. Dinanzi alla loro sorte s’impone un interminabile istante d’indignato silenzio. E la memoria è un atto imprescindibile:
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Tortora la intravedo da lontano. Faccio in tempo a raccogliere e riprodurre una voce importante. È sempre più raro trovarne una così all’interno delle istituzioni della rappresentanza. Il sindaco di Tortora, Pasquale Lamboglia:

Si fa tardi. Rientro a Guardia Piemontese, la mia base. Mi siedo sulla sabbia a contemplare un tramonto dai colori violacei e arancioni. È tempo di bilanci per l’inviato da nessuno. È giusto che per tirare le somme, mi affidi ancora alle parole di chi in questo viaggio ha dimostrato d’avere le idee chiare:
Francesco Cirillo:

Bruno Giordano:

Non sono mai stato uno che si esalta per l’operato della magistratura italiana. Anzi! Però le cose vanno scritte per come sono. C’è un giudice vero a Paola. Si chiama Bruno Giordano. A differenza di alcuni suoi colleghi di altre procure, non è un megalomane. Preferisce lavorare in silenzio e con equilibrio. Purtroppo in Italia ogni volta che qualcuno sa fare qualcosa di buono, tutti gli propongono di fiondarsi nei palazzi del potere. Per fortuna lui non ambisce a entrare in politica. Negli ultimi anni ha avuto il coraggio di fare quello che tante procure in Calabria non fanno più: verificare il rispetto delle leggi a tutela dell’ambiente, indagare su soggetti coperti da potenti protezioni. E lo ha fatto senza cercare il clamore. È un comportamento che lascia ben sperare.
Palpitano pure tantissime realtà sociali vive nei centri urbani bagnati da questo mare. Lo difendono e valorizzano. Ne custodiscono culture, memoria e identità. Costituiscono delle sacche di democrazia deliberativa, senza le quali il Tirreno e il primo entroterra diventerebbero “una folla di solitudini”.
Alla partenza mi ero posto delle domande importanti. Sono state le persone che vivono questi territori a rispondere. Io posso solo provare a produrre una sintesi.
Primo problema: il mare sporco. Molto è stato fatto, ma c’è ancora tanto da fare. Bisogna ricostruire le reti fognarie di interi paesi, potenziare i depuratori, ripristinare sistemi di controllo elettronici centralizzati. Per fare tutto ciò ci vogliono soldi. Basterebbe recuperare l’1% dei fondi non spesi, che ogni anno dalla Calabria tornano all’UE. Possono farlo solo la Regione e la Provincia. Bisogna inoltre risalire i torrenti, scovando i silos, le porcilaie e le case rurali che scaricano abusivamente. È un compito che non può essere né delegato alla sola procura di Paola né affidato alle polizie municipali. Quanti Sindaci sono disposti a perdere centinaia di voti sanzionando i proprietari degli scarichi illeciti? Allora questo ruolo può essere esercitato solo da una nuova entità interforze, estranea ai territori da monitorare. L’Autorità di bacino, così com’è, ha dimostrato di non avere risorse e strumenti adeguati. Bisogna poi individuare tutti gli edifici non allacciati alle reti fognarie. Non è sufficiente una mappatura “a campione”. È indispensabile procedere col metodo “porta a porta”.
Per quanto riguarda infine l’erosione costiera, è inutile continuare a sperperare denaro pubblico. Non c’è più niente da fare. I danni sono irreversibili. Abbiamo cancellato in pochi anni il lavoro svolto dalla natura in sei millenni. Importante sarebbe imporre il blocco totale su qualsiasi attività edilizia. Purtroppo dubito che questo possa avvenire. I cementificatori sono ancora lì, trionfanti, serviti e riveriti. Li incontriamo tutte le mattine nei bar in cui prendiamo il caffè. Li chiamiamo “onorevole”, “ingegnere”, “consigliere”, “cavaliere”. Come se nulla fosse. Finché non nascerà una generazione di calabresi indignati, disponibili a insorgere, dobbiamo rassegnarci ad annaspare in questa palude.
“L’armi scappavan dalle mani tremanti, d’aste coverto il suolo era e di brandi, levata che Minerva ebbe la voce; e tutti, avari della cara vita, alla città si rivolgeano. Ulisse, con un urlo che andò sino alle stelle, inseguia ratto i fuggitivi, a guisa d’aquila tra le nubi altovolante”.
Odissea, libro XXIV. vv 676-683
Appunti di congedo:
I rom rumeni che fanno gli ambulanti, possono essere definiti “Vu cumprà”? Me lo sono chiesto. Pare proprio di no. Per gli italiani, “Vu cumprà” sono solo i marocchini.
Pare che l’espressione “barbari” sia l’esito dello sfottò degli antichi greci nei confronti del “bar…bar…bar…” affiorante dall’accento dei popoli a loro ostili.
Non so se sia vero, ma un amico arbereshe mi ha raccontato che anche l’odioso nomignolo “ghiegghi” sarebbe stato attribuito dagli indigeni calabresi ai primi albanesi che, immigrati in Calabria, nell’incontro con le popolazioni locali, pronunciavano spesso una frase in lingua madre che suonava più o meno così.
In Messico mi hanno raccontato che quando i Maya delle zone costiere incontrarono i primi spagnoli colonizzatori e cercarono di capirsi, pronunciavano spesso la frase “yu-catàn” che pare significasse proprio: “Non ho capito”. Oggi un’intera penisola in Messico si chiama Yucatan.
Il sistema più efficace per animalizzare un popolo, mummificarlo, oggettivarlo, consiste nell’identificarlo con una frase o una parola che quel popolo pronuncia spesso. Affibbiare così un soprannome a un singolo essere vivente, animale o persona che sia, a volte può risultare anche simpatico. Tanti gatti si chiamano “Miao” e tanti cani “Bau”.
Ma se applicato sui popoli, questo meccanismo di attribuzione di un nome, cristallizza una vena di pungente razzismo.

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